Le Violon d’Ingres. Le ossessioni degli artisti a Roma
Villa Medici, Roma ‒ fino al 3 febbraio 2019. Ultima settimana per vedere “Le Violon d'Ingres”. Un'occasione senz'altro eccezionale per approfondire ed entrare in contatto con le passioni sconosciute e le pratiche trasversali di menti geniali, sensibili esegeti che hanno dedicato la propria vita all'arte, non accontentandosi di vestire panni troppo stretti.
“C’è qualcosa che possa incrinare il ‘tutto unico’ che la mente dissacratrice dell’artista – per puro gioco – mette in discussione totalmente – deride o adora, venera o vanifica?”
Pier Paolo Pasolini, Ladies and Gentlemen.
Osare, fantasticare, dedicarsi uno spazio-tempo, un hortus conclusus per uscire dagli schemi della riconoscibilità e del giudizio critico. Non si può arginare la creatività e relegarla entro limiti definiti; le discipline artistiche si compenetrano e contaminano, si rispondono in linguaggi che convergono e divergono, fluidi. L’idea della mostra nasce da una conversazione tra la curatrice Chiara Parisi e l’artista Christian Boltanski.
Un modo di dire ricorreva tra i boulevard parigini per intendere un hobby, un passatempo: le violon d’Ingres. Il pittore della Bagnante di Valpinçon amava dedicarsi alla musica. Man Ray non perderà l’occasione d’immortalare la propria amante, Kiki de Montparnasse, con due chiavi di violino disegnate sulla schiena, suggellando attraverso un gioco di rimandi erotici la celebrità dell’espressione.
Il corpus principale della rassegna è costituito dalle romantiche e chiaroscurali annotazioni di Victor Hugo: tenebre e tempeste, castelli diroccati e piccoli borghi dolcemente rischiarati da una tiepida luna, una piovra con i suoi tentacoli antracite.
I DISEGNI
Il disegno è il medium preponderante, la velocità nell’esecuzione permette ai pensieri di coagularsi in una forma, così l’erudito regista russo Sergej Ėjzenštejn allenta i lacci del clima di castità e inibizione dettati dal regime stalinista e sfoga le pulsioni erotiche latenti e taciute nelle pellicole, rappresentando figure vigorose, titaniche, quasi composte in blocchi scultorei. Allo stesso modo Federico Fellini, indimenticabile e acuto interprete della società contemporanea, lascia la sua penna scorrere sul foglio, cristallizzando fantasie sessuali sottilissime e irriverenti, come quella che ritrae una nuotatrice in esplorazione subacquea.
Mentre il tratto sommario e tagliente del poeta Pierre Guyotat ci trascina in un groviglio di corpi, flessi e piatti come nelle stampe giapponesi ‒ il desiderio sessuale si condensa in una trama di incastri che prendono possesso della pagina bianca quasi fosse uno spazio fisico, punteggiati da tocchi di rosso sulle bocche agognanti ‒, la calligrafia cinese negli schizzi di Franz Kafka, i “geroglifici personali” o scarabocchi, ci mostrano un Kafka genuinamente ironico, in considerevole coerenza con la volontà di considerarsi scrittore comico. Un’attività segreta, gelosamente custodita dall’autore che aveva persino ordinato nel testamento la loro distruzione.
VIDEO E SCATTI
Altra parte consistente è dedicata al video e alla fotografia.
Il corto Un chant d’amour di Jean Genet è un urlo struggente: due uomini divisi dalle fredde mura di una prigione scambiano effusioni in un amplesso mai consumato. Divisi come Piramo e Tisbe, l’uno passa all’altro il fumo di una sigaretta da un foro nella parete.
Il Film di Samuel Beckett è una riflessione sofisticata sulla visione: l’inconscio, cibandosi delle paure più recondite, risveglia un senso di tormento e frustrazione, la psiche rifiuta di vedere e riconoscere il dolore, allo stesso tempo diventiamo opachi e imperscrutabili. Da una parte le fotografie folgoranti, il candore della neve, di Abbas Kiarostami, il tableau vivant di Robert Wilson, una Lady Gaga nelle vesti della Mademoiselle Caroline Rivière di Ingres, il palinsesto degli intimi scatti della regista francese Chantal Akerman, accompagnato dalla lettura del romanzo dedicato alla madre; dall’altra la pellicola sperimentale di Chris Kraus, il filmino familiare di Magritte, gli splendidi chiaroscuri de La Belle et la Bête di Jean Cocteau con gli occhi vispi dei telamoni del camino.
Significative la forza del ritratto di Pier Paolo Pasolini col fiore rosso tra le labbra come la commovente e profetica confessione “il mondo non mi vuole più e non lo sa“, che contrasta con i disegni dal carcere di Nelson Mandela, ove speranza di rivalsa e aspettative sul futuro si condensano, scacciando il grigio e la desolazione. Due intere pareti sono ricoperte di tessere luminose, Etel Adnan con le sue tappezzerie brillanti e Carlo Levi, caratterizzato da una pennellata corposa e da una tonalità rosa alla De Pisis.
‒ Giorgia Basili
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati