Tutto il fascino delle rovine. Da Venezia a Roma
Nel veneziano Palazzo Fortuny e alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, due mostre evocano il fascino delle rovine. Declinandolo in linguaggi differenti.
Il 2019 del contemporaneo comincia all’insegna delle rovine, uno dei temi più cool del momento sulla scena dei musei italiani. L’argomento non è nuovo, ed era stato trattato con acume multidisciplinare nella mostra La forza delle rovine a Palazzo Altemps, curata da due archeologi di rango come Marcello Barbanera e Alessandra Capodiferro nel 2015, che sviluppava l’argomento partendo dall’antichità, con un occhio di riguardo per il valore storico e simbolico della rovina intesa soprattutto come manufatto archeologico.
Oggi sono due le rassegne che trattano il tema, pur con modalità diverse. A Palazzo Fortuny a Venezia va in mostra Futuruins, con un’impostazione più classica, simile alla mostra di Altemps, mentre alla Galleria Nazionale di Roma si può visitare ancora per pochi giorni Ilmondoinfine: vivere tra le rovine, che si interroga sul significato della vita nell’era dell’Antropocene, tra il collasso ambientale e l’esaurimento delle risorse.
A VENEZIA
Futuruins presenta 250 opere, selezionate da Daniela Ferretti e Dimitri Ozerkov (la mostra nasce da una collaborazione tra i Musei Civici di Venezia e l’Ermitage di San Pietroburgo) per riflettere sull’estetica della rovina e del frammento: un fil rouge che va dalla pittura del Rinascimento al contemporaneo, in un percorso senza soluzione di continuità che unisce Dürer e Friedrich, de Chirico e Burri fino ad alcuni giovani italiani, scelti con coraggio e consapevolezza, come Ludovica Carbotta, Fabrizio Prevedello, Giulia Cenci, Cleo Fariselli, Christian Fogarolli e Renato Leotta, che ha realizzato un’opera per l’occasione.
Così, nella suggestiva cornice di Palazzo Fortuny, si apre un dialogo tra antico e contemporaneo, che permette di comprendere come gli artisti si siano relazionati al tema sia come nostalgia di un passato lontano, oggetto di una romantica rêverie, che in qualità di topos socio-antropologico.
A ROMA
Più interdisciplinare e attuale l’approccio de Il mondoinfine, la collettiva progettata da Ilaria Bussoni coadiuvata da un team curatoriale (composto da Simone Ferrari, Donatelo Fumarola, Eva Macali e Serena Soccio) che ha costruito un percorso dove le opere d’arte si accompagnano a originali installazioni (Soundwundertunnel, un tunnel sonoro di 13 metri), ma soprattutto a “oggetti in relazione”: geodi minerali, alghe essiccate, denti di narvalo e altri manufatti. Il tutto in una “catena significante” complessa e stimolante, anche se non sempre di immediata comprensione. A differenza di Futuruins, qui i riflettori sono puntati sulla capacità della natura di adattarsi ad ambienti ostili e minacciati dalla presenza umana.
“Proprio lì, tra le rovine degli ambienti boschivi collassati, sui cumuli delle macerie delle città di continuo dissodate, limitrofa ai resti della nostra civiltà prima che li si trasformi in monumenti, ostinata e sorprendente torna a proliferare la vita”, scrive Bussoni. E Gianfranco Pellegrino suggerisce l’ipotesi di “una natura-ibrida, né totalmente naturale né totalmente artificiale”, e la mostra oscilla tra queste due istanze, attraverso le puntuali connessioni tra le opere e gli oggetti. Particolarmente calzanti e inaspettati i lavori degli artisti fuori dal mainstream come Massimiliano Turco (Flusso, 2013-15), Gigi Cifali (Untitled 03, New Vesuvian Landscape, 2011-13) e Chiara Bettazzi, autrice di Wonder objects, 2013-18, una delle installazioni più immediate dell’intera mostra, abbinati a opere significative di artisti consolidati come Pietro Ruffo, Emanuele Becheri e Gian Maria Tosatti. Senza dimenticare i collage post-archeologici di Cristoph Keller e Virginia Colwell, le riflessioni urbane di Felice Cimatti e l’installazione Le tre ecologie di Fiamma Montezemolo, un filo troppo vicina all’estetica di Jannis Kounellis ma comunque efficace. Infine ottimo il catalogo-tabloid, con testi di approfondimento di qualità e spessore per un progetto espositivo in linea con gli standard internazionali, in grado di farci riflettere sui destini del mondo. Unica pecca: una durata troppo breve.
‒ Ludovico Pratesi
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