Arte contemporanea e già perduta. Il murale di Stefano Di Stasio nel Teatro Trianon di Roma
La storia del murale realizzato da Stefano Di Stasio nel teatro romano durante gli Anni Novanta. In seguito distrutto, del murale oggi sopravvive soltanto un bozzetto custodito da un anonimo collezionista.
Una delle maggiori nostalgie della nostra civiltà ha per oggetto le perdute testimonianze del passato. Fra queste, il primo posto lo occupano le opere d’arte, irrecuperabili perché materialmente distrutte dal tempo o dagli uomini. È quindi anche per evitare accuse da parte dei posteri che la nostra epoca si è preoccupata di difendere, come mai prima, la maggior quantità possibile di manufatti più o meno antichi. Ma di fronte a tale preoccupazione spesso non ne corrisponde alcuna per ciò che, pur degno di cura e rispetto, al passato ancora non può appartenere per difetto d’età.
L’OPERA
È il caso dell’enorme fondale a tempera su cartongesso, circa diciassette metri per dieci, che durante i giorni di Natale del 1990 il pittore anacronista romano Stefano Di Stasio (Napoli, 1948) eseguì sul più grande palcoscenico allora esistente nella Capitale: il Teatro Trianon nel quartiere Tuscolano. Il direttore Antonio Obino, accogliendo un’idea dell’amico attore Alberto Di Stasio, liberò la platea delle poltrone e, creata una quinta naturale con alberi e fogliami sulla sinistra, occupò lo spazio vuoto con una grande pedana e lo allestì con sedie e tavolini come un temporaneo ritrovo di artisti, scrittori e critici. Nel contempo, Alberto avrebbe curato la messa in scena dell’Orestea di Eschilo. Ogni sera a partire dal 23 dicembre si poteva entrare e, seduti ai tavoli dell’effimero bar, assistere a una serie sempre diversa di performance poetiche, musicali e coreutiche. Contemporaneamente Stefano Di Stasio, coinvolto nell’iniziativa dal fratello, si sarebbe lasciato osservare mentre dipingeva il vasto fondale: tra due quinte di grigia periferia urbana e davanti a una landa deserta, varie figure vi si vedevano andare e venire recando fiaccole e lanterne, mentre sulla destra apparivano seduti a un tavolo quadrato – specchio di quanto avveniva nello spazio reale antistante e quasi moderni convitati di Emmaus – tre uomini somiglianti a Obino, ad Alberto Di Stasio e allo scrittore Arnaldo Colasanti, condirettore artistico del Trianon. A mezzanotte, ogni serata terminava con la lettura, da parte di Alberto, di un brano del Vangelo.
LA DISTRUZIONE E IL BOZZETTO
Celebrato il Capodanno con una festa danzante, compiuto l’enigmatico murale e messo a punto lo spettacolo, il 6 gennaio 1991 l’Orestea andò in scena, replicata appena due volte nelle sere seguenti; quindi calò il sipario. Infatti, subito giunse la notizia che la sovvenzione ministeriale, necessaria per la sopravvivenza del Trianon, sarebbe stata pesantemente ridotta. Obino fu costretto perciò a cedere il teatro a un’associazione cattolica, i cui rappresentanti sarebbero stati poco dopo travolti senza colpa da Tangentopoli. Lo spazio fu quindi acquistato dai produttori Aurelio De Laurentiis e Fulvio Lucisano, al fine di trasformarlo in multisala cinematografica. Conclusi i lavori, il 18 settembre 1997 il sindaco Rutelli presenziò alla nuova inaugurazione. Nessuno ebbe però la sensibilità, e diciamo anche la furbizia economica, di pensare al murale, che nonostante la relativa fragilità del supporto avrebbe potuto e dovuto essere salvato dal rifacimento: all’insaputa dello stesso autore, l’opera fu così condannata alla distruzione.
Unica testimonianza, sopravvive il bozzetto, dipinto a tempera e olio su un cartoncino di 50×102 centimetri. Comprato dall’ex calciatore della Roma Francesco “Ciccio” Cordova e poi battuto presso la casa d’aste Babuino nel 2009, il bozzetto appartiene ora a un anonimo collezionista romano: a lui va ora la responsabilità di custodirlo, trasmettendo il ricordo del murale perduto.
‒ Antonio Vannugli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati