Le pietre d’inciampo di Gunter Demnig a Roma. L’opinione di Gabriella De Marco
Professore ordinario di Storia dell’arte contemporanea presso il Dipartimento Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Palermo, Gabriella De Marco riflette sull’opera dell’artista tedesco Gunter Demnig, impegnato da anni nella posa di pietre d’inciampo in memoria delle vittime della Shoah.
La mia riflessione sulle pietre d’inciampo verte sulla visibilità di un ‘assenza, ovvero su una mancanza che diviene, paradossalmente, proprio per non esserci più, una presenza eloquente. Una presenza eloquente che si manifesta attraverso dei vuoti, delle ferite ripetute che si caricano di significati, anche simbolici.
Il tema della sepoltura, del diritto di ciascuno alla sepoltura inteso come espressione, come condizione di dignità è al centro, dunque, del mio ragionamento a partire dalle deportazioni criminali nei campi di sterminio attuate dai nazisti nei confronti di zingari, omosessuali, ebrei, detenuti politici.
Una riflessione, la mia, sollecitata da un triste, quanto esecrabile, fatto di cronaca.
Nella notte tra il 9 e il 10 dicembre del 2018 sono state divelte a Roma, al numero civico 82 di via Madonna dei Monti, venti pietre d’inciampo realizzate dall’artista tedesco Gunter Demnig e dedicate, nell’ampio progetto generale che informa questo suo lavoro, alle vittime della Shoah.
Le pietre divelte erano state collocate il 9 gennaio del 2012 in memoria dell’unico nucleo familiare composto dalle famiglie Di Castro, Di Consiglio, Di Tivoli e Moscato, vittime inermi del nazifascismo e uccise ad Auschwitz e Roma, alle Fosse Ardeatine.
Un’intera famiglia, quella dei Di Castro e dei Di Consiglio, sterminata dai nazisti: i più giovani tra i suoi componenti, Cesare Elvezio e Giuliana Colomba, avevano rispettivamente due e tre anni.
Una profanazione della memoria del luogo, quella dello scorso dicembre, che non ha giustificazione alcuna: la procura di Roma ha aperto, a riguardo, un fascicolo d’indagine affidato al procuratore aggiunto Francesco Caporale. L’ipotesi è quella di reato per furto aggravato dall’odio razziale. Le pietre di via di Madonna dei Monti, come già è accaduto con quelle divelte in altre località italiane ed europee, sono state reinstallate lo scorso 15 gennaio.
La questione, tuttavia, a mio avviso, non è certo chiusa.
Al contrario, l’episodio, purtroppo uno tra i tanti, ha messo in moto una serie di riflessioni non superate. Non è la prima volta, del resto, che sia nella Capitale sia in altre città italiane ed europee si è verificato un simile gesto, esempio tangibile di violenza e odio razziale oltre che di una preoccupante idiozia. L’azione ottusa e violenta ottiene, paradossalmente, nella becera profanazione, e per ragioni su cui ritornerò, l’effetto contrario.
Furti, devastazioni, atti vandalici a cui sono sottoposte le pietre d’inciampo, o stolpersteine, avvengono, in particolare, soprattutto in Germania e in Austria, secondo quanto afferma Gunter Demnig l’artista autore del progetto. Un’opera di ampio respiro animata da ragioni etiche, storiche e politiche.
MEMORIA E TESSUTO URBANO
Nel 1990, Demnig decise, infatti, di fronte a una signora che negava che a Colonia, nel 1940, fossero stati deportati dai nazisti, come prova generale per l’eliminazione degli ebrei, 1000 sinti, di dedicare la sua vita e il suo lavoro alla memoria di tutti i deportati razziali, militari, politici, rom e omosessuali. L’artista elaborò, così, un progetto, ancora in corso, sicuramente di forte impatto e, al tempo stesso, di rispettosa discrezione.
Un sampietrino reca incisi, sulla superficie di ottone lucente, pochi dati identificativi: nome e cognome, data e luogo di nascita, data e luogo di deportazione, data di morte se conosciuta.
La pietra è sempre posta sul marciapiede prospicente l’abitazione da cui è stata prelevata la vittima, per il suo viaggio senza ritorno.
Il deportato, dunque, grazie alla pietra d’inciampo, torna metaforicamente nella propria casa. Vi torna con la dignità di persona per essere ricordato dai parenti e dai tanti cittadini che, per caso, passano lì davanti.
Se l’elencazione dei nomi con le date di nascita e di morte è propria sia delle sepolture sia dei monumenti e dei memoriali, significativa, e in controtendenza, è la scelta di Demnig di non utilizzare il piano verticale e, quindi, la facciata della casa dove abitavano i deportati, ma di disporre sulla strada la pietra d’inciampo. Una soluzione che la rende assimilabile alle tombe pavimentali, e come queste soggetta al calpestio dei passanti.
Un’ installazione d’arte contemporanea, quella ideata da Deming che, nel suo impianto generale, è diffusa in 17 Paesi europei, in 898 città della Germania, e che può ritenersi, sotto il profilo storico-artistico, come il più grande esempio nel mondo di museo diffuso della memoria.
Fuori dagli spazi museali, fuori dalle principali gallerie, lontane dagli ambienti delle più importanti e prestigiose manifestazioni internazionali di arte contemporanea, le sue iscrizioni si diffondono nelle piazze, nei vicoli, nelle strade delle città europee divenendo parte integrante del tessuto urbano, parte integrante della città in divenire.
Non, quindi, un segno retorico della tragedia della Shoah, ma traccia volta a sollecitare un confronto, che spesso diviene anche scontro, tra individuo e collettività, tra derive razziste e senso di comunità, tra memoria privata e memoria pubblica, tra mediazione tra spazio pubblico e spazio privato, tra storia, memoria e ricordo.
La scelta della strada o della piazza è, infatti, un azzardo a cui va incontro Demnig.
Un azzardo non prevedibile da parte dell’artista e che, come tale, può mettere a rischio la memoria, come del resto dimostrano i recenti quanto ripetuti atti vandalici cui nel tempo sono state soggette le pietre d’inciampo.
Appare evidente come il lavoro racchiuda, innegabilmente, al suo interno un inevitabile valore semantico di natura politica che trascende da un approccio meramente formale.
Dopo l’uccisione di 6 milioni di esseri umani tra ebrei e altre vittime attuata dal nazismo, il corpo dell’assenza è cresciuto a dismisura.
Ciò pone, inevitabilmente, su molti fronti alcuni interrogativi: sebbene, infatti, la memoria non possa essere imposta, esiste, al tempo stesso, dal punto di vista etico, morale, un obbligo di memoria collettivo nel caso della Shoah. Uno statuto di cittadinanza che va condiviso e rinnovato nel tempo, con il tempo. La Shoah è un’esperienza al limite che, come tale, apre un difficile varco rispetto alle consuete capacità di ricezione, di comprensione condivisa. L’esperienza da condividere, da trasmettere è quella di un’inumanità senza precedenti e ciò rende, se non difficile, certamente problematico il percorso di avvio di ricostruzione storiografica.
Si è trattato, non bisogna dimenticare, di crimini definiti come contro l’umanità secondo un iter giuridico che è divenuto esperienza condivisa e fondante delle nostre democrazie.
Come renderne, quindi, concreta l’assenza, come elaborarne il ricordo?
LUOGHI PRIVATI
Demnig, per tornare all’oggetto del mio ragionamento, nell’intero progetto interviene sui luoghi dove si è manifestato l’orrore scegliendo non i campi di sterminio ma l’abitazione privata.
Abitazione intesa, anche, come metafora della banalità del quotidiano di cui improvvisamente alcuni sono stati privati, e senza motivazione alcuna. Un ‘assenza che l’artista tedesco ha cercato di ricomporre, colmare attraverso la vasta operazione delle Pietre d’inciampo e che il gesto vandalico dello scorso dicembre ha, apparentemente, nuovamente cancellato.
Cosa è successo nel periodo intercorso tra la profanazione dello scorso dicembre e la rinnovata installazione?
L’atto scellerato ha inizialmente prodotto una buca, un impronta di qualcosa che non c’era più, ovvero le pietre d’inciampo e con esse la memoria delle famiglie deportate e uccise.
Già il giorno stesso è nata una sorta di edicola spontanea con la riproduzione delle pietre divelte con i nomi e le date di nascita e di morte dei componenti della famiglie Di Castro e Di Consiglio.
Un giusto ricordare in reazione al cancellare, un civile omaggio da parte di sconosciuti.
Il vuoto improvviso è tornato a essere un pieno.
Un vuoto eloquente, come ho affermato, che si carica, a mio avviso, di un potenziale simbolico rendendo, così, ancor più forte il lavoro di Demnig.
La traccia delle pietre con i nomi e la data di nascita e di morte dei componenti della famiglie Di Castro, Di Consiglio, Di Tivoli e Moscato era divenuta nel non esserci più una testimonianza pubblica ma, anche, un memento continuo con tutte le implicazioni giuridiche, estetiche, storiche e antropologiche che ne conseguono fornendo, inoltre, un ‘occasione di meditazione ulteriore sulla morte.
Attraverso la memoria eternatrice della sepoltura e del nome del sepolto si accede al diritto di eternità acquisita.
Alla luce di questo aspetto, le pietre d’inciampo acquistano ulteriormente corpo perché consentono l’elaborazione del lutto, anche qualora queste siano oggetto di bieche profanazioni. Il vuoto, il “buco” prodotto sul manto stradale, diviene, necessariamente, luogo di accadimento e interazione con la persona, con il passante, con il fruitore dando vita a una ri-modellazione che, a mio parere, non cancella la memoria; al contrario ne esalta, ne rafforza il ricordo.
Se l’originale è perduto, noi lo sentiamo ancor più nell’assenza come drammatico elemento mancante. Una mancanza dovuta a un’opera espropriata dal luogo, che era nata efficacemente in rapporto con il luogo. Una relazione di necessità che fa del lavoro dell’artista tedesco un intervento site specific. L’operazione condotta da Demnig si fa, in senso lato, quindi, in quell’inscindibile connubio tra forma e contenuto, luogo di rivelazione, espressione di risarcimento sia individuale sia collettivo.
Un simbolo, nella tragedia che l’ha generato, accumulatore di energia.
Questo scritto nasce in relazione alla mia partecipazione al seminario di studio e di ricerca promosso dal Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Ateneo di Palermo, per la cura di Matteo Di Figlia e Daniela Tononi. Seminario centrato su Interrogare la Memoria. Riflessioni sulla Shoah, tenutosi nei giorni 29 e 30 gennaio 2019. Giornate di studio a cui ho partecipato con un contributo su “La memoria come patrimonio di sofferenza. Le Pietre d’inciampo di via Madonna dei Monti a Roma”. Una riflessione centrata sull’ atto vandalico cui sono state sottoposte tra il 9 e il 10 dicembre 2018, “le pietre” di via Madonna dei Monti.
Il testo proposto è, dunque, una prima comunicazione di uno studio in fieri, pur se idealmente in continuità con alcune ricerche da me avviate negli ultimi anni.
Mi riferisco, in particolare, ai temi del museo diffuso, della città, del rapporto tra arte pubblica, spazio pubblico e fruitore, alla ri-semantizzazione dell’architettura italiana negli anni del fascismo e, ultimo ma non ultimo, ai pregiudizi culturali diffusi nella cultura italiana contemporanea.
La mia gratitudine va, infine, a chi è stato per me un prezioso punto di riferimento.
Un grazie, innanzi tutto, all’Associazione Arte e Memoria e, in particolare, alla sua Presidente Adachiara Zevi, a Teresa Terracina e a Elisa Guida.
Parole di ringraziamento vanno, inoltre, ad Alessandro Ronzani e Massimo Siclari e a Fausto Maria Amato per i preziosi riscontri e confronti tra la storia dell’arte contemporanea e il diritto.
‒ Gabriella De Marco
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