La bellezza salverà il mondo? L’editoriale di Antonio Natali
Antonio Natali prende in esame un assunto che è ormai diventato un luogo comune. Eppure la bellezza, se unita al contenuto, potrebbe ancora salvare il mondo.
Si sente spesso dire che la bellezza salverà il mondo. Nella stagione attuale, pervasa di luoghi comuni che annebbiano l’intelligenza, questo è uno dei più abusati e anche uno dei più fallaci; perché si fonda sull’idea sbagliata che la bellezza sia virtù istintivamente percepibile. Quasi che la capacità di riconoscerla fosse innata. E forse se ne potrebbe convenire se s’alludesse all’epifanie del creato, che davvero son capaci di sbalordire il cuore e indurre a pensieri alti. Ma del creato l’artefice è la natura (per chi rimetta tutto a una casualità prodigiosa) oppure Dio (per chi invece, come me, creda). Il problema si pone però quando il demiurgo è l’uomo, quando cioè ci si volga alle sue opere; perché non è vero che la bellezza di un’opera d’arte si colga d’intuito. Sono l’educazione e la consuetudine con la cultura (tutta, non soltanto quella figurativa) a farci discernere e apprezzare quella bellezza ch’è creata dagli uomini.
IL CONVEGNO
Proprio sulla bellezza e sulla sua capacità d’elevare l’animo fu nel 2011 organizzato un convegno dal “Cortile dei gentili”. L’uditorio era variegato (credenti e non credenti), ma certo la presenza del clero era cospicua; sicché, chiamato a intervenire, ritenni opportuno tornare alle parole d’alcuni più recenti pontefici, che, indirizzandosi agli artisti, avevano esaltato il valore della bellezza come virtù in grado di redimere. A principiare da Paolo VI (papa sensibile alla pastorale delle immagini nelle chiese): “Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione”. Mi venne allora naturale chiedere al clero presente quale fosse la ragione per cui la Chiesa, pur attribuendo alla bellezza una forza perfino salvifica, consentisse che sugli altari (luogo privilegiato d’elevazione) fossero collocate opere per lo più di nessun pregio, né qualitativo né inventivo. Non si trattava d’interrogarsi sul rapporto corrente fra arte e religione, ch’è campo d’indagine sterminato e scivoloso. Il punto era ed è un altro: quando sugli altari si pongono opere esteticamente e concettualmente insignificanti è segno che la bellezza non si sa riconoscere.
Le tavole o le tele che nei secoli trascorsi venivano dipinte per andare sugli altari erano in gran parte dotate di bellezza; ma erano per solito commissionate da uomini cólti (chierici o laici) che avevano conoscenza di teologia e insieme competenza aggiornata in materia di lingua figurativa. Ne sortivano quasi spontaneamente opere di contenuto forte e di poesia sublime. Opere, però, che per esser comprese e stimate nella loro compiuta bellezza richiedevano ‒ e ora vieppiù richiedono ‒ un’educazione adeguata.
LA DEPOSIZIONE DEL PONTORMO
Si sperimenti quest’asserzione su una pala d’altare che sia capace di dimostrare in maniera lampante come la ‘bellezza’ sia virtù complessa. La cosiddetta Deposizione del Pontormo in Santa Felicita a Firenze è sicuramente “bella” in sé; ma quanto parrà più “bella” allorché – seguendo le omelie di sant’Agostino – se ne scopra il significato sotteso. Si scopra cioè ch’essa illustra, sì, una deposizione, ma non già di croce (che difatti non c’è) e nemmeno nel sepolcro (che parimenti non c’è). I due episodi sono infatti effigiati nella vetrata del Marcillat, ch’è lì, nella medesima cappella, a un metro dalla pala: in alto il corpo di Cristo è calato dalla croce e in basso lo stesso corpo viene calato nel sepolcro. E allora? Allora, seguendo l’esegesi di sant’Agostino, si capirà che la tavola del Pontormo illustra una scena in cui il cadavere di Gesù viene lentamente calato dagli angeli (efebici cristofori) sulla mensa dell’altare, fin sulle braccia dell’officiante, perché diventi pane eucaristico. Cristo “pane del cielo”, “pane degli angeli”, “pane dell’altare”; secondo le formule bibliche e teologiche che riguardano Gesù. Significato arduo e insieme però altamente lirico. Come il suono armonioso d’una poesia composta di vocaboli belli. La quale, però, rivelerà tutta la sua vera bellezza quando si capisca che quel suono armonioso è la veste nobile di pensieri alti. Forma e contenuto, dunque. È questa la bellezza che fa elevare lo spirito e che per conseguenza può salvare il mondo.
‒ Antonio Natali
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #14
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