Big data & small brains. L’editoriale di Marco Senaldi
Pare esista una formula per il successo in campo artistico. Il filosofo Marco Senaldi ne ripercorre (e critica) origini e usi.
“Chi pensa astrattamente?”. Così si chiedeva Hegel due secoli fa. E intendeva proprio chi pensa staccandosi dalla vita concreta della cultura, nella quale siamo immersi, ergendosi come il “genietto di turno”, l’enfant prodige che adesso arriva e ci fornisce lui la spiegazione, il brillante maître à penser, che diventa subito subito un pensatore prêt-à-porter, da indossare in anticipo sugli altri per la stagione entrante, chissàmai che finalmente mi notino.
Ma, ahimè, amici carissimi – non è esattamente così che funziona. Non nell’arte, né nella cultura, almeno. Chi comincia ad avere un po’ di anni sulle spalle lo sa bene, e difficilmente si fa impressionare dal fioccare di mostre, interventi, partecipazioni a kermesse s-blasonate e compagnia cantante. Perché il gioco è bello che già visto – quelle kermesse, infatti, per andare avanti, in un modo o nell’altro, hanno bisogno di sempre nuova linfa, ma le cose che perdurano davvero ovviamente giacciono su un altro piano, sia spaziale che temporale. Il tempo, in cultura, si misura su grandezze diciamo “abbastanza” ampie, e la selezione che esso impone, spesso spietata, è capace di cancellare completamente anche il più smagliante dei successi – basta guardarsi indietro, anche non di molto, per rendersi conto di come sia inconfutabile questa verità.
“Fate un semplice test: queste teorie funzionano se applicate a se stesse?”
Ma chi pensa astrattamente, bello fiero e ringalluzzito delle sue piuttosto patetiche trovate, non si pone nemmeno il problema. Uno di questi enfant (prodige no, eh, proprio è un aggettivo che, scusate, è impossibile regalargli) sarebbe Albert-László Barabasi, già autore dell’indimenticabile (o forse già dimenticato?) Bursts (trad. it. Lampi, Einaudi 2011) – in cui ha lanciato la fenomenale idea dei “big data”. Peccato che, nella foga di spiegare come i dati quantitativi governino le nostre vite (il sottotitolo è proprio The Hidden Pattern Behind Everything We Do) si sia dimenticato di spiegare la cosa più ovvia: da dove sorge allora l’idea innovativa che regge il suo stesso libro? Dai big data, cioè dalla “trama segreta dietro ciò che facciamo”, oppure da un “lampo” – quello sì, di genio certamente! – scoccato nella sua nobile mente? Perché, delle due l’una: se è vera la prima risposta, allora l’amico Albert-László è un poveretto qualunque e chiunque prima o poi avrebbe colto l’importanza dei big data (e certo: se sono big devono produrre una qualche spiegazione di se stessi, o no? E lo devono fare, necessariamente, è nella loro natura, Albert-László o non Albert-László, o no?); ma se invece è vera la seconda, allora la teoria dei big data non sta proprio in piedi (per spiegare i big data, infatti, serve un fatto qualitativo che sta fuori di essi, che essi cioè non spiegano e che non si spiega con la “trama segreta” che starebbe dietro tutto ciò che facciamo).
Insomma, eccoci qui: queste teorie, per quanto belle, anzi, bellissime, cascano come fette di culatello sotto la lama affettatrice dell’autoriflessività: anzi, il mio consiglio personale è – prima di imbarcare la vostra fiducia di lettori in simili scempiaggini – fate un semplice test: queste teorie funzionano se applicate a se stesse?
“Per misurare l’influenza di un artista, o meglio di una tendenza culturale, non basta un “termometro” quantitativo”.
Ma ora Albert-László ci vuole davvero stupire regalandoci la formula – ma di che cosa, ma di che cosa? chiederanno i miei piccoli lettori. Ma… nientemeno che del successo in arte! Ohh… E come farà? Ma semplice, dice lui: big data alla mano, curricula di 500mila artisti e sviluppo delle loro carriere – per produrre – udite udite! – il bel grafico che vedete sopra (nell’articolo Quantifying reputation and success in art, apparso su Science l’8 novembre 2018). Che colpo: basta guardarlo per capire tutto: che ci sono luoghi più importanti dove far l’artista e luoghi meno, e che, se sei fuori da quei luoghi, il successo non lo avrai mai. Caspita, che intuito. E allora, uno si chiederebbe, ma, e l’Italia dov’è? Ah-ah, sì che c’è – rappresentata, fra gli altri, da… Villa Croce, Museo di Arte Contemporanea di Genova. Ma siamo proprio sicuri che sia un luogo così centralmente importante? Non me ne vogliano gli amici genovesi, eh, ma da quanto ne so, ultimamente (neanche prima però) difficilmente si potrebbe definire un luogo di prima grandezza, non certo a livello nazionale almeno, non parliamo a livello internazionale; e non ci vuole un esperto di arte mondiale per confermarlo, bastava un minimo di informazione giornalistica.
Già, ma dài, direte, questa sarà una svista periferica… Eh sì, cari i miei aspiranti al successo – ma il problema non è la svista (che di per sé però, lasciatemelo dire, dimostra la totale incompetenza in merito di Albert-László & friends – tra cui la sociologa italiana Roberta Sinatra), il fatto è un altro: è che per misurare l’influenza – usiamo questa vetusta parola – di un artista, o meglio di una tendenza culturale, non basta un “termometro” quantitativo – anzi, non basta nessun genere di termometro. Ma non perché un certo strumento (sociologico, matematico, analitico, o magari sintetico, ecco) non funzioni o non sia adeguato, ma per il semplice fatto che lo strumento e la cosa da misurare sono entrambi parte dello stesso scenario: persino il grafico di Albert-László non ha qualcosa di artistico? (E infatti ricordo che anni fa un artista italiano aveva prodotto una cosa simile…). E allora? Che facciamo – applichiamo la formula del successo-in-arte anche ad Albert-László stesso? Vuoi vedere che il misuratore diventa il misurato… e magari fa qualcosa di “concreto”? Forse per lui la formula del successo magari funziona.
P.S. Ah, quasi dimenticavo: se siete artisti e volete diventare famosi anche voi, ecco la formula:
‒ Marco Senaldi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #47
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