Made in Italy e Created in China. L’editoriale di Stefano Monti
La Cina sta facendo passi da gigante anche sul fronte culturale e creativo. E l’Italia come reagisce? Stefano Monti riflette sui rischi di considerare inattaccabile il prestigio del Made in Italy.
Le industrie culturali sono state la forza trainante che ha consentito alla Cina di liberarsi da una situazione che beneficiava la “middle class” mentre la nazione stagnava.
Allo stesso modo, le industrie culturali sono state un fattore primario nello sviluppo e nella trasformazione da un’economia guidata dagli investimenti, dal governo, e da una logica di “costi e prezzi” verso un più alto modello di creazione di valore e di crescita economica, guidato dal mercato, dalla qualità dei prodotti e dall’innovazione.
Il mantra non è più “Made in China” ma “Created in China”.
Hardy Yong Xiang, China Cultural and Creative Industries Report 2013
La Cina è una nazione per molti versi criticabile. Ma su una cosa è fenomenale: posto un obiettivo, lo persegue. E in soli cinque anni la riflessione di Hardy Yong Xiang in un libro di settore, che in pochissimi hanno letto, è divenuta una realtà tangibile. Concreta. Che ha il suono del fruscio della seta.
Non ha senso approfondire le differenti “intese” che il nostro governo ha firmato. Le pagine di cronaca le descrivono punto per punto. Al riguardo, l’unico commento possibile è che se chi ci governa non è uno sprovveduto (e non lo è) ha accettato le condizioni formali per costruire rapporti utili al nostro Paese su accordi che non sono stati ancora formalizzati.
Se questo è vero, o se è solo una vana speranza, lo capiremo nei prossimi dodici mesi. Non è questo il punto centrale, che invece sembra sfuggire alla maggior parte delle riflessioni (pubbliche e di corridoio).
Il punto centrale è che in soli cinque anni (il report citato è stato dato alle stampe nel 2014) la Cina ha messo in atto una serie di operazioni finanziarie, geopolitiche ed economiche per un posizionamento globale. Sono stati posti in essere ingenti investimenti esteri, così come sono state avviate profonde e radicali riforme interne (una tra tutte, la regolamentazione del settore finanziario, in cui gli ArtFund giocavano un ruolo centrale).
È stato creato uno dei più vasti network televisivi dell’Africa continentale, sono stati acquistati alberghi e leisure activity in tutto il mondo. Musei, musei privati, gallerie, fondazioni d’arte sono stati costruiti con una velocità sorprendente, seconda soltanto alla velocità con cui le città cinesi si sono riconvertite in un’ottica cultural-driven (soprattutto i cosiddetti waterfront).
Nel frattempo, sono stati finanziati progetti avveniristici di smart city e soprattutto di digital citizenship (non importa quanto siano criticabili).
Queste azioni portano a una conclusione che non dovrebbe passare in secondo piano: la Cina sta investendo per divenire un grandissimo player globale a livello culturale e creativo. Lo sta facendo perché il Created in China possa avere un “valore di posizione” che, al momento, è detenuto soltanto dall’Italia.
“Il Made in Italy non è scolpito nella roccia. Ed è sempre meno Made in Italy”.
Il nostro Made in Italy è famoso in tutto il mondo. Così come lo sono la nostra storia, la nostra cultura. La Cina, tuttavia, non ha meno risorse: per quanto il suo significato sia sempre meno rilevante, il grande numero di siti Unesco italiani di cui tanti commentatori si vantano (51) è seguito a ruota da quello cinese (48).
Il punto, però, non riguarda tanto la “storia”. Quella l’abbiamo ereditata e, come spesso ripetuto, non sempre ce la “meritiamo”. Quello su cui dovremmo maggiormente concentrarci è il senso del “Made in Italy”. Oggi abbiamo una posizione di vantaggio competitivo che ci permette di godere di una grande awareness e di un forte riconoscimento internazionale, nonostante la nostra capacità di promozione all’estero sia risibile.
In tutti i commenti, emerge (non detta) la prospettiva un po’ supponente degli italiani: noi siamo il Made in Italy, e voi cinesi un popolo di riproduttori.
Questa supponenza, tuttavia, diviene giorno dopo giorno sempre meno fondata. Perché il Made in Italy non è scolpito nella roccia. Ed è sempre meno Made in Italy.
Se non si corre ai ripari, se non si stabiliscono dei piani di valorizzazione del nostro tessuto imprenditoriale (sempre più stremato da un sistema fiscale ingiustificatamente oneroso), se non si realizzano dei piani di valorizzazione del nostro territorio e del nostro know-how, il Made in Italy avrà sempre meno valore.
Le conseguenze sarebbero davvero poco piacevoli.
Non si tratta di limitare gli scambi con questo o con quel Paese. Si tratta di avviare politiche serie, che non si limitino a finanziare la presenza delle imprese italiane in fiere internazionali.
Davvero dovremmo credere che un imprenditore, che vuole penetrare un nuovo mercato, abbia bisogno dei soldi dello Stato per pagarsi il viaggio e l’hotel? È davvero questa la risposta migliore che il nostro Paese ha immaginato per le nostre Piccole e Medie Imprese?
‒ Stefano Monti
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