Se non è pubblica, che arte è? L’editoriale di Fabrizio Federici
Fabrizio Federici fa il punto sull’arte pubblica. Che affonda le radici in epoche ben lontane dalla Street Art.
Tutta l’arte è pubblica. È concepita per ‒ e ha bisogno di ‒ un pubblico (più o meno ampio, a seconda della destinazione dell’opera e delle diverse epoche storiche). Negli ultimi decenni, tuttavia, si è affermato l’uso dell’espressione “arte pubblica” per indicare, in maniera più specifica, la produzione artistica destinata a spazi pubblici non espositivi, e chiamata dunque a interagire con chi quegli spazi abita e frequenta quotidianamente. Si pensi soltanto ai grandi murales della Street Art che sempre più spesso (e non senza aspetti problematici) spuntano in spazi urbani bisognosi di “riqualificazione”.
L’idea della utilitas publica di opere d’arte e collezioni ha radici profonde. Nella Naturalis Historia Plinio ricorda un’orazione, a suo dire bellissima, di Marco Vipsanio Agrippa, nella quale il potente amico e genero di Augusto evidenziava la necessità di publicare, ovvero di esporre in spazi pubblici, tutte le statue e le pitture, anziché relegarle, come in esilio, nelle ville dei ricchi (in villarum exilia pelli). Con l’Umanesimo, e poi sempre più nel corso del Seicento, il tema diviene di cruciale importanza: diversi collezionisti di piccole antichità (monete, gemme, utensili, iscrizioni) aprono volentieri a eruditi e viaggiatori le porte delle loro raccolte, certamente anche per vanagloria personale, ma soprattutto perché credono nella utilitas publica dei reperti da loro radunati, indispensabili per ricostruire la “cultura materiale” del mondo antico. Nel 1546 il mercante di antichità Antonio Conteschi (noto anche come “Antonietto delle Medaglie”) apponeva sulla facciata della sua casa romana un’iscrizione in cui rivendicava di essersi tanto adoperato per lo scavo e il recupero delle “anticaglie” “publicae utilitatis potiusque sui rationem habens” (“avendo più a cuore la pubblica utilità che il proprio utile”). Un secolo dopo, l’erudito Giovanni Battista Casali (+1648) faceva scrivere sulla propria lastra tombale che “reconditos […] / thesauros sacros et prophanos / disciplinarum studiosis aperuit” (“aprì agli studiosi tesori nascosti, sacri e profani”).
Contemporaneo di Casali fu Francesco Gualdi che, oltre ad accogliere sapienti visitatori nel suo museo, sistemò marmi antichi e sarcofagi paleocristiani su facciate di edifici e nei portici di alcune basiliche dell’Urbe, in modo da favorirne la più ampia fruizione possibile. Gualdi, per così dire, trasformò alcuni pezzi del suo museo in esempi di Street Art, con un processo che è esattamente il contrario di quanto avviene oggi a tanti lavori di “arte urbana”, rimossi dalle strade ed esposti in musei, mostre e gallerie d’arte (si veda il divertente documentario del 2014 Banksy does New York per scoprire che fine hanno fatto le creazioni newyorchesi dell’artista britannico).
Naturalmente, non tutti i collezionisti dell’epoca barocca erano così liberali nel mostrare i loro tesori. Cardinali e principi lo erano assai meno di collezionisti eruditi come Casali e Gualdi.
A detta di quest’ultimo, i potenti erano talmente gelosi dei reperti in loro possesso da “tener sotterato di nuovo le loro antichità”. Viene in mente un caso occorso una ventina d’anni fa, quando si temette che il magnate giapponese Ryoei Saito si fosse fatto cremare, come egli aveva assicurato, assieme al Ritratto del dottor Gachet di Vincent van Gogh, da lui acquistato nel 1991. Le voci relative alla distruzione del dipinto (poi rivelatesi infondate) alimentarono un ampio dibattito sulla proprietà delle opere d’arte e sui limiti cui deve essere soggetta. Il proprietario di un bene culturale, riconosciuto come tale, non può farne ciò che vuole, ma deve assicurarne la salvaguardia e la fruizione. In molti casi, per fortuna, questo avviene, così come accade che privati contribuiscano, attraverso generose donazioni, alla salvaguardia del nostro patrimonio culturale.
‒ Fabrizio Federici
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #15
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