Grandi mostre e musei. Partner o competitor?
Qual è il legame economico tra musei e grandi mostre? E quali sono le ricadute sul pubblico?
Piccola introduzione. In economia, due beni si identificano come ‘complementi’ (o complementari) quando l’aumento del consumo dell’uno correla positivamente con il consumo dell’altro. Un esempio? Caffè e zucchero; verdure e aglio. Sono invece detti ‘beni sostituti’ quei beni che mostrano una relazione opposta: l’aumento del consumo dell’uno genera un calo del consumo dell’altro. Esempi: burro e margarina; Pepsi e Coca.
Ora c’è da chiedersi: rispetto ai pubblici, le grandi mostre e i musei rappresentano beni complementi o sostituti? In altri termini, la grande mostra è un partner del museo o ne rappresenta piuttosto un competitor?
Sono molteplici gli studi che evidenziano come le grandi mostre in Europa siano aumentate a partire dal “financial breakdown” del 2008. Alcuni sottolineano come lo stesso ricorso alla grande mostra sia il risultato di quella grande crisi, che ha comportato tagli alla cultura più o meno ovunque (anche se in alcuni Paesi in modo più rilevante). Così la grande mostra diviene il grande evento del museo: uno strumento attraverso il quale rischiare anche parti ingenti di risorse economiche per la realizzazione (o semplicemente l’esposizione) di mostre in grado di attirare molti visitatori e quindi apportare un ROI, un ritorno sull’investimento.
Dal punto di vista economico-contabile, quindi, nessun dubbio sul ruolo che le grandi mostre giocano per i musei. Ma quali sono gli effetti sulla crescita dei visitatori dei musei nel medio periodo? Più nel dettaglio, quali sono gli effetti sulla crescita numerica (numero di visitatori), qualitativa (conoscenza, engagement ecc.) e di incremento fruitivo (frequenza di visita durante l’anno) dei visitatori dei musei?
La mostra è estremamente importante nel perseguimento dei fini statutari del museo e nella creazione di nuova conoscenza. Attraverso le mostre si delineano nuove letture critiche, nuove interpretazioni, si disegnano contrapposizioni, discrasie e linee comuni.
L’esposizione temporanea, in altri termini, corrisponde a una produzione di nuova conoscenza attraverso la quale il museo può intessere con i propri visitatori un dialogo, offrendo loro un motivo per “tornare al museo” anche quando hanno già più volte ammirato la collezione permanente.
“Il rischio è che si vada a vedere la grande mostra così come si va a vedere un film”.
Se da un lato, quindi, sia sotto il profilo contabile che sotto il profilo dell’offerta culturale, i musei ormai non possono più prescindere dall’esposizione di mostre, dall’altro i grandi costi di produzione di alcune rassegne hanno fatto sì che si affermasse un format di produzione basato sulla cosiddetta circuitazione: un soggetto “produce” una mostra e poi ne organizza un “tour” in altri musei, in altre nazioni e, quando va bene, in tutto il pianeta.
Questo modello è strettamente legato alla struttura dei costi di produzione di alcune mostre. È necessario per far sì che tali produzioni possano generare dei ritorni economici positivi (garantendo, quindi, la continuità di produzione).
Tuttavia, il rischio è che, con l’affermarsi della grande mostra, il rapporto tra mostra e museo tenda a divenire molto più flebile. In altri termini, il rischio è che si vada a vedere la grande mostra, così come si va a vedere un film. Non vado al Palazzo delle Arti di Napoli. Vado a vedere Escher. Non vado al Palazzo Reale di Milano, vado a vedere Picasso.
Così, l’engagement con i visitatori diviene molto più difficile perché la circuitazione di mostre che non hanno attinenza con il museo tende a trasformare quest’ultimo in un mero contenitore. Un display.
In fondo, al netto di servizi e valori aggiunti, un cinema vale l’altro.
‒ Stefano Monti
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #15
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