Neovernacolare (X). La poesia dello scarto
Fabrizio Bellomo approfondisce l’idea di scarto, reperendone le fonti nella tradizione culinaria locale ma anche nelle arti visive.
È da tempo che provo a catalogare e a segnarmi sulle note dell’iPhone, tutti i ‘momenti’ in cui da delle condizioni di povertà sono scaturiti grandi esempi dell’arte di arrangiarsi, che sempre più spesso inizio a riconoscere come l’unica arte possibile. Questo non vuol dire che gli esempi segnati hanno a che fare esclusivamente con le materie artistiche: tutt’altro.
Vanno dall’utilizzo del nero di seppia in cucina alle coperte a uncinetto – realizzate coloratissime – perché derivate dai tanti scarti di lana differenti riutilizzati: maglioni rotti, sciarpe rovinate. Così da creare un vero e proprio stile di tessitura (chiamato anche ‘a mattonelle’), che, come tutti i patchwork odierni, sono derivati e dettati da iniziali condizioni di povertà e successivamente diventati altro, a volte lussi per pochi. Oggi le stesse coperte rifatte in quel modo sono divenute costose perché non sono più il frutto di una necessità – ma un puro vezzo.
L’utilizzo delle sacche dei cefalopodi e dei pesci in cucina è cosa nota, dalla pasta con la malandra (il fegato) del polpo – tipica della mia città ‒ al già citato nero di seppia alla bottarga. Tutte interiora di pesce o come mi viene spesso esclamato: “Oramai ti piace mangiare le ‘ndrame dei pesci” (a Bari le ‘ndrame sono le interiora bovine ed equine); anche questi scarti ittici – inizialmente riservati ai più poveri – sono divenuti oggi piatti tipici e prelibati, alla stregua della trippa alla romana. Un esempio lampante di quello che sto dicendo risiede nella pasta mista – ora già acquistabile direttamente in confezione e un tempo ‘formulabile’ esclusivamente attraverso il recupero degli avanzi. Ottima per la pasta e patate alla napoletana. O ancora: le blasonate escargot francesi: sono ed erano un piatto popolare della tradizione contadina, d’altronde le lumache si raccolgono da terra come i sassi sporchi di alghe e di mare con cui cucinare degli ottimi spaghetti al ‘sapore di pesce’, una delle versioni fra le varie. Ne ricordo altre due: la “pasta con le vongole fujute” narrata da Eduardo De Filippo e la “pasta con l’aragosta scappata” scoperta grazie alla mamma di Zaga.
LA CULTURA DI ARRANGIARSI
Sulla cultura di arrangiarsi, tutto il Sud, ma soprattutto Napoli, sono luoghi dove scoprire illimitate ‘grandi bellezze’ (seguendo questo paradigma): tutti i sughi ‘finti’ partenopei ne sono una conferma, difatti ‘le vongole fujute’ sono solo un esempio, si continua con il finto ragù o la finta genovese. L’elemento mancante in questi ‘finti’ è sempre quello più costoso: la carne o il pesce. L’ingegnosità dettata dalla povertà è commovente.
Il pescatore che si conserva la sacca delle seppie e del polpo che ha dovuto vendere per incassare, e con questi scarti trattenuti poter cucinare qualcosa – in modo da poter almeno evocare quel sapore di mare – alla propria prole.
E l’arte, la poesia, quella più alta e umana, si annida volentieri in queste storie, non c’è nulla da fare. Per fortuna.
E rifugge da coloro che provano a riproporre quelle stesse trovate intuite nella povertà di mezzi, mettendole a regime economico: le economie rimangono; la poesia va via. Una efficace peculiarità, questa capacità dell’essenza dell’arte, che come fosse un’anguilla sfugge a chi ne vuol far capitale. Una sfaccettatura invisibile ai più, certo, ma non per questo inesistente.
Se pensiamo anche al disegno industriale o all’architettura, vengono in mente di primo acchito degli esempi: la prima Lambretta in tubature, nata proprio durante la riconversione postbellica della grande fabbrica di tubature innocenti di Lambrate o i trulli: passati dall’essere ripari rurali stagionali a ‘buen ritiro’ della ricca borghesia di mezz’Europa.
SARACENO E GLI SCARTI
Una delle opere, forse l’unica, che abbia sempre trovato eccezionale del noto artista Tomás Saraceno è una sorta di finta ‘mongolfiera’ (Museo aereo solar) ideata attraverso una serie di laboratori di comunità, uno dei quali realizzato durante il progetto Isola Art Center – contro la ‘gentrificazione verticale’ del quartiere Isola di Milano – e realizzata ricucendo insieme centinaia di comuni buste di plastica così da formare – appunto – un grande patchwork.
Molte delle altre sue opere mi sono sempre sembrate invece uno sfoggio opulento di muscolatura superflua, utile a divertire una ricca borghesia annoiata nordeuropea.
La stessa “Arte Povera” (alcune delle opere dell’epoca e non di certo i grandi suppellettili – quale l’orrenda mela di Pistoletto riuscita a rendere meno armoniosa anche la vista della splendida stazione monumentale di Milano) rimane uno dei pochi, se non l’unico, movimenti italiani moderni a essere riuscito a sconfinare in modo rilevante: e anche questo si è occupato di opulenza e di scarto, nonostante le forzature curatoriali di alcuni inserimenti, come nel caso di Paolini.
La questione non riguarda il dove andarli esoticamente a cercare questi scarti, ma il vivere nello scarto e dello scarto – derivato di una stupida e perennemente inutile opulenza. Fosse utile, ma la borghesia è decadente e opulenta insieme, essa spende per il piacere agiato di fare decadere e nel mentre gli ultimi inventano cose bellissime senza avere nulla. Il capitale sempre e per sempre acquisterà pure tali invenzioni, ma l’animo che le ha generate, quella spinta vitale è e sarà perennemente inacquistabile.
‒ Fabrizio Bellomo
Neovernacolare (I) – Laboratorio Saccardi
Neovernacolare (II) – L’aspetto esteriore
Neovernacolare (III) – Antiribellione
Neovernacolare (IV) – Il cinismo
Neovernacolare (V) – Vita quotidiana e utilità
Neovernacolare (VI) – Verità universale
Neovernacolare (VII) – Il contesto
Neovernacolare (VIII) – Speranze resistenti
Neovernacolare (IX) – Affetto e cura
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