Arte senza frontiere. L’editoriale di Fabrizio Federici
In un’epoca sempre più invasa da sovranismi e odio verso l’altro, Fabrizio Federici ricorda l’importanza delle migrazioni artistiche. Anche per l’Italia.
Il nome di Giovan Battista Tubi non dirà molto alla maggioranza dei lettori. Così come quello di Domenico Martinelli o di Bartolomeo Berecci. Eppure si tratta di grandi artisti italiani che svolsero buona parte delle loro carriere oltralpe, esportando la nostra cultura figurativa e architettonica e incrociandola con le tradizioni locali. Il romano Tubi, divenuto Jean-Baptiste Tuby, fu uno degli scultori preferiti del Re Sole, per il quale realizzò numerose statue destinate al parco di Versailles. L’architetto lucchese Domenico Martinelli, formatosi a Roma, operò a lungo tra Sei e Settecento nell’Europa centrale (Austria, Boemia, Moravia), progettando splendidi palazzi che molto hanno influito sullo sviluppo dell’architettura in quelle terre (come è stato evidenziato nel ricco convegno a lui dedicato, che si è svolto a Lucca nel settembre scorso). Berecci fu uno dei protagonisti dell’architettura rinascimentale in Polonia, e in particolare a Cracovia.
Di questi e di molti altri emigrati illustri si è sempre parlato poco, nel nostro Paese, e ora se ne parla ancora meno, in questo periodo in cui il tema delle migrazioni è di scottante attualità e in cui a molti piace sorvolare sul nostro passato di terra di emigranti (anche assai prima che il fenomeno assumesse, nel XIX e nella prima metà del XX secolo, dimensioni di massa). Di questi tempi, Tubi e compagni rischiano di passare per traditori; pensiamo solo alle infelici parole del vicepremier Di Maio sulla tragedia di Marcinelle, che – così le hanno sintetizzate i media ‒ “insegna che non bisogna emigrare”.
“Ribadire la natura meticcia del patrimonio culturale ‘italiano’ è necessario”.
Il “traffico” in direzione opposta, dall’estero verso la Penisola, è sempre stato altrettanto intenso: si è trattato di artisti che venivano a completare la loro formazione o che hanno vissuto in Italia per alcuni anni (Rubens) o per la gran parte delle loro esistenze (Poussin, Claude Lorrain, Thorvaldsen), dando contributi fondamentali all’evoluzione dell’arte italiana. E se non venivano gli artisti, giungevano le opere: siamo sempre pronti a lamentarci per le innumerevoli opere realizzate in Italia e finite (con la forza o grazie al denaro) all’estero, mentre ci interessiamo molto meno alle tante presenze straniere che arricchiscono il nostro variopinto patrimonio artistico. Opere che ancora si trovano sul suolo italiano (e non solo nei centri maggiori: uno dei principali tesori della chiesa madre di Polizzi Generosa, nel palermitano, è un grande trittico fiammingo di fine Quattrocento, riferito al cosiddetto “Maestro dei fogliami ricamati”); o che sono espatriate (come l’Aristotele di Rembrandt commissionato dal messinese Antonio Ruffo, oggi al Metropolitan). A tacere di quelle che, per rocambolesche vicende, sul suolo italico non sono giunte mai (pensiamo al meraviglioso Giudizio Universale di Memling commissionato da un banchiere fiorentino, che fu sequestrato dai corsari durante il viaggio verso l’Italia e finì a Danzica).
Insomma, si vuole confermare, con queste annotazioni, quanto è già noto e anzi direi ovvio: che l’arte, linguaggio universale, frutto di incontri, incroci, viaggi, migrazioni, mal sopporta le frontiere e le etichette identitarie. Ribadire la natura meticcia del patrimonio culturale “italiano” (e di quello di ogni altro Paese del mondo) sembra tuttavia necessario, in questi nostri tempi di arrembante sovranismo, in cui è forte la tentazione di sfruttare per basse esigenze politiche le tracce del nostro passato, semplificando e distorcendo, così come già fecero, con esiti nefasti, i nazionalismi della prima metà del Novecento.
‒ Fabrizio Federici
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #16
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