La raccolta della Fondazione Keller a Lugano
MASILugano – fino al 28 luglio 2019. La mostra al Masi riunisce capolavori provenienti da diversi musei svizzeri, tutti della fondazione istituita nel 1890. Con un incontro travolgente tra Hodler, Segantini e Bŏcklin.
Il monumentale Trittico delle Alpi di Segantini, L’Isola dei morti di Bŏcklin (versione del Kunstmuseum di Basilea) e L’eletto di Hodler riuniti uno al cospetto dell’altro: è il punto culminante, nella sala centrale, della mostra che riunisce al Masi una selezione di capolavori della Fondazione Keller.
Costituita nel 1890 da Lydia Welti-Escher, erede dell’industriale e politico Alfred Escher, la fondazione continua ancora oggi le acquisizioni (6400 opere finora, dal Dodicesimo al Ventesimo secolo), che diventano proprietà della Confederazione e vengono concesse in prestito di lunga durata a diversi musei svizzeri (a oggi centodieci).
RINCORSE RIVOLUZIONARIE
La presentazione a Lugano conferma una tendenza recente, ovvero quella del dialogo tra i musei della Svizzera italiana con quelli degli altri cantoni. E lo spaccato fornito dalla mostra dà l’idea della qualità delle scelte della fondazione.
La mostra spazia principalmente tra Ottocento e Novecento, con un esordio nel caravaggismo secentesco di Giovanni Serodine, presente con La Vergine dei mercedari (1620-1625), suggestivo dipinto che intimorisce con il suo sviluppo verticale ma accoglie con i suoi chiaroscuri. Il Settecento è rappresentato tra l’altro da un bel Füssli (Peccato inseguito dalla morte, olio del 1794-96). E il percorso prosegue poi con la rincorsa che sfocerà nelle Avanguardie storiche, prima con i prodromi di rivoluzione ottocenteschi e poi con le definitive rivoluzioni del Ventesimo secolo.
DIALOGO TRA CAPOLAVORI
I tre capolavori riuniti, si diceva. Il Trittico delle Alpi (1896-1899) esce eccezionalmente dal suo “rifugio”, il museo Segantini di St. Moritz. Le impressionanti dimensioni sono solo il primo motivo di stupore: entrando nei tre dipinti che lo compongono (La vita, La natura e La morte) si vive con l’occhio e con il corpo in un campionario simbolico, tutt’altro che rassicurante, dell’esistenza umana: un mondo in sé concluso. L’eletto di Hodler (1893-94) è uno degli esiti più perturbanti e maliziosi del Simbolismo, con il suo enigmatico infante che sembra vegliare sulle sei creature femminili alate, piuttosto che essere vegliato. Ci si tuffa quindi nell’oscurità irrimediabile con L’isola dei morti di Bŏcklin (1880) e si passa poi al colore inebriante ma morboso dei dipinti di Giovanni Giacometti, per poi passare alla corposità della Natura morta di Vallotton del 1914 e finire con il Busto di Annette (1964) di Alberto Giacometti, in cui l’individuo lotta con la materia e la materia con se stessa. Il tutto in un allestimento arioso che permette di godere dei lavori e lascia il giusto spazio allo spettacolare dialogo tra capolavori che si svolge nella sala centrale.
‒ Stefano Castelli
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