Il ripostiglio dei ricordi di un giovane armeno. Arshile Gorky secondo Gabriella Belli
La direttrice della Fondazione Musei Civici di Venezia ripercorre la storia di Arshile Gorky, protagonista della mostra allestita a Ca’ Pesaro e inaugurata durante l’opening della scorsa Biennale.
Quando nel 1920 il poco più che adolescente Vostanig Adoian, alias Arshile Gorky, arrivò nel porto di Ellis Island a New York, era come se avesse già vissuto una vita intera. Sofferenze, lutti, fughe, fame: la sua era stata un’infanzia segnata dalla violenza e i suoi occhi potevano testimoniare uno dei più cruenti episodi d’intolleranza etnica della storia. Ma nel buio di quella fanciullezza negata, era nata in lui, e continuava a resistere ‒ pur davanti alle drammatiche vicende che ne segnarono i giorni e i mesi degli anni vissuti in una Armenia sconvolta dalla guerra ‒ una certezza non negoziabile, quella di voler diventare un artista.
E questa certezza è stata il motore di tutta la sua vita, senza mai un dubbio o un inciampo. Che questa vocazione fosse già in nuce negli anni in cui con la madre viveva a Khorkom e poi lungo la strada che tra mille traversie lo porterà, via Costantinopoli, in America, è un fatto che la bellissima biografia di Matthew Spender sembra in più punti suggerire, descrivendo in lui una quasi precocissima premonizione, forse anche incoraggiata dalla madre. Che un giovane potesse in quelle tragiche circostanze immaginarsi pittore è a mio avviso una delle cose più sorprendenti della sua biografia, testimonianza di quanto l’immaginario creativo per un ragazzo poco più che adolescente potesse costituirsi come un rifugio e un protetto nascondiglio dalle orribili verità degli adulti.
E fa molto riflettere che, dentro quel ripostiglio della mente, Gorky proteggesse non gli orrori ma le storie più belle, i colori più vivi, i profumi più intensi della sua terra, del suo lago prediletto, delle luci e delle ombre di quell’Armenia di cui mai o quasi mai vorrà parlare apertamente, anche se ne canterà con la sua voce ben impostata la malinconia nelle serate trascorse con gli amici pittori newyorchesi, e ne perpetuerà l’amore nel distillato dei suoi ricordi, che, come fantasmi buoni, ancora oggi noi sentiamo aleggiare nelle sue opere più potenti.
“Per l’adolescente Gorky l’immaginario creativo è un rifugio”.
Sospesa tra realtà e finzione, tra concretezza e immaginazione è stata tutta la sua vita. Raccontarsi e raccontare delle storie, sia nella vita reale che in quella artistica, è la cifra che ha segnato tutta la sua non lunga esistenza, dalla scelta di cambiare il nome trovando congeniale la fittizia parentela con lo scrittore russo Maxim Gorky al costruirsi un passato artistico, che a dir suo lo aveva visto a Parigi, all’epoca agognata meta per tutti gli artisti americani, che avevano avuto prova all’Armory Show del 1913 di quanto fertile fosse quella città per chi all’arte voleva completamente dedicarsi.
Tutta concretezza fu la sua scelta del Museo, luogo da cui trarre insegnamento, un tirocinio non dissimile da quello degli artisti rinascimentali dentro l’atelier di qualche illustre Maestro. Immaginazione fu invece ciò che Gorky creò nella piena autonomia del segno e nella preveggenza di una libertà espressiva, formale e spirituale, inimmaginabile prima di lui, quando, chiuse le porte del Museo, egli si trovò a dipingere nelle calde estati a Crooked Run Farm, a contatto della Natura, à rebours verso la casa di Khorkom.
‒ Gabriella Belli
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #17
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