L’attribuzione è una cosa seria. L’editoriale di Fabrizio Federici
Delicata e complessa, l’attribuzione è uno dei passaggi fondamentali nell’attività di uno studioso. Ed è per questo che non va sottovalutata.
Di attribuzioni farlocche è pieno il mondo. E lo è sempre stato: basta scorrere gli inventari antichi per trovarvi una sequela di nomi roboanti e, molto spesso, del tutto inattendibili. Da una ventina d’anni a questa parte, tuttavia, il fenomeno ha assunto una risonanza un tempo impensabile, grazie soprattutto ai mezzi di comunicazione, sempre pronti, da un lato, a sbattere la bufala attributiva in prima pagina, e restii, dall’altro, a verificare l’attendibilità delle proposte. Anzi, le nuove attribuzioni vengono spesso presentate come dati acquisiti, non problematici, e in un istante il dipinto “attribuito a” diventa senza dubbio “di”.
Uno degli old master più colpiti dal fenomeno è sicuramente Michelangelo, a partire perlomeno dalla vicenda del piccolo Crocifisso Gallino, discreto prodotto seriale di una bottega fiorentina della fine del Quattrocento che lo Stato, con Sandro Bondi nelle vesti di Ministro dei Beni Culturali, acquistò nel 2008 come opera giovanile del Buonarroti, spendendo più di tre milioni di euro di soldi pubblici. La vicenda, soprattutto a causa del coinvolgimento dello Stato, sollevò un vespaio: illustri storici dell’arte rigettarono l’attribuzione mentre Tomaso Montanari faceva luce, nel suo ficcante pamphlet A cosa serve Michelangelo? (2011), su una storia sordida di conflitti di interessi e di mercificazione del patrimonio culturale. Spentosi il clamore, non si sono placate le attribuzioni poco plausibili al grande artista. Con una notevole particolarità: se in altri casi (pensiamo a Caravaggio) si tenta di nobilitare opere che comunque hanno un qualche legame (di cronologia, di stile, di derivazione) con la produzione del supposto autore, nel caso di Michelangelo gli si riferiscono spesso lavori che con lui non c’entrano assolutamente nulla. E pensare che, se c’è un artista del passato che utilizza un proprio, ben riconoscibile linguaggio, questi è Michelangelo.
“Si è disposti a negare ogni evidenza pur di sostenere proposte strampalate”.
Due attribuzioni, in particolare, hanno del clamoroso. Un crocifisso ligneo con le braccia sollevate, appartenente a una tipologia molto diffusa al di qua e al di là delle Alpi nel Sei-Settecento, ma inesistente ai tempi del Buonarroti, è stato attribuito all’artista toscano: dopo aver soggiornato a lungo in un caveau di San Marino, il piccolo Crocifisso di Michelangelo ‒ come già lo hanno ribattezzato un’infinità di siti e di giornali – sarà esposto nel battistero di Ascoli Piceno, tra il giubilo di cittadini e amministratori (come se la cittadina marchigiana non avesse da offrire, in materia di beni artistici, cose assai più significative). Ancora più allucinante la vicenda di una Pietà in terracotta di provenienza imolese, probabilmente realizzata tra Bologna e la Romagna negli ultimi decenni del Settecento o al principio del secolo successivo, e assurta d’emblée a prima versione della Pietà vaticana. Tra l’altro la terracotta è chiaramente una riproposizione in tre dimensioni della Pietà di Annibale Carracci (Napoli, Capodimonte); ne consegue che, per i sostenitori della “scoperta”, fu Annibale a ispirarsi alla terracotta michelangiolesca!
Insomma, si è disposti a negare ogni evidenza, a ribaltare l’ordine degli eventi, pur di sostenere queste strampalate proposte. Liquidarle con un sorrisetto di superiorità, tuttavia, non basta: queste fake news inquinano le conoscenze e compaiono con frequenza nei risultati dei motori di ricerca. Gli storici dell’arte (e i giornalisti culturali seri, se ve ne sono ancora) sono chiamati a esprimersi, a smontare con ricchezza di argomentazioni le ipotesi bislacche, a condannare e isolare chi fa (per soldi, per fama) certe proposte: altrimenti, a che diavolo serve la storia dell’arte?
‒ Fabrizio Federici
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #17
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