Black exhiblist. 16 mostre a tema
Dopo i libri, i film e le serie tv, una carrellata di mostre a tema black.
CONTEMPORARY AFRICAN ART
Camden Art Centre, Londra, 1969
curatori: Jacqueline Delange e Philip Fry
Una delle prime mostre in Europa ad analizzare le caratteristiche distintive dell’arte africana non tradizionale. I curatori anticiparono tendenze future, esponendo opere di alcuni degli artisti che si sarebbero affermati nei decenni successivi: il sudanese Ibrahim El Salahi, Malangatana dal Mozambico, i sudafricani Gerard Sekoto e Sidney Kumalo, il senegalese Iba Ndiaye e i nigeriani Uzo Egonu, Uke Ocheche, Bruce Onobrakpeya e Twins Seven Seven.
AFRICAN ART IN MOTION
National Gallery of Art, Washington, 1974
curatore: Robert Farris Thompson
A Thompson si deve il merito di aver creato una commistione tra generi e di aver riaffermato lo statuto artistico della danza nel contesto africano. Come scrisse nella prefazione al catalogo: “L’Africa apre a una diversa storia dell’arte, una storia dell’arte danzata, definita dalla fusione tra movimento, scultura, tessuti e altre forme, che creano la propria inerente qualità e vitalità”. Esponendo 160 oggetti provenienti da 20 Paesi – manufatti appartenenti alla collezione di Katherine Coryton White –allestì di cinque postazioni audiovisive con film, video e registrazioni che presentavano danze e rituali in cui gli oggetti venivano usati.
THE FOUR MOMENTS OF THE SUN
National Gallery of Art, Washington, 1982
curatori: Robert Farris Thompson e Frère Joseph Cornet
La mostra presentava 89 tra sculture e oggetti funerari di vario genere, sottolineando la presenza di una dimensione afro-americana nelle opere esposte, in particolare caratterizzata da una stretta relazione tra gesti e icone provenienti dall’arte funeraria congolese e le popolazioni di colore dell’emisfero occidentale. Fu la prima mostra ad approfondire il tema dell’arte funeraria proveniente da un certo contesto; allo stesso tempo, i curatori ne rivelarono il significato transoceanico, con l’intento di colmare la distanza tra le due sponde dell’Atlantico.
THE IMAGE EMPLOYED
Cornerhouse, Manchester, 1987
curatore: Keith Piper
Nella prefazione al catalogo, il curatore-artista denunciava la mancanza di attenzione e spazio per la diffusione e circolazione di un’“arte nera”. Sono le parole di Marlene Smith a spiegare l’obiettivo e il focus della mostra: “Questa mostra esiste come tentativo di andare al di là delle formulazioni di linguaggi con cui esaminare le pratiche artistiche nere […] Questo tentativo è fatto riconoscendo le funzioni che può svolgere un tipo di critica sensibile alla nostra pratica artistica. ‘The Image Employed’ tenta di localizzare questa pratica piuttosto che determinarla”.
MAGICIENS DE LA TERRE
Centre Georges Pompidou, Parigi, 1989
curatore: Jean-Hubert Martin
La mostra presentava 104 artisti provenienti da 50 Paesi. Nel corso di diversi anni, il curatore e i membri del comitato scientifico visitarono i cinque continenti con lo scopo di creare una commistione tra artisti già noti e figure “marginali” e autodidatte, e di promuovere un’arte globale che sconfessasse, la differenza fra arts & crafts. Considerata come momento chiave nella circolazione e ricezione dell’arte africana e in generale “non-western”, Magiciens de la terre è stata una delle mostre più discusse e criticate degli ultimi cinquant’anni. Rashed Araeen, ad esempio, la accusò di promuovere una visione egemonica, “occidentale” ed esotizzante dell’arte, rinforzando la dicotomia fra Occidente e resto del mondo. Le opere degli artisti non occidentali erano in effetti presentate in forma decontestualizzata e “diversa” rispetto al canone eurocentrico.
WHITNEY BIENNIAL
Whitney Museum of Art, New York, 1993
curatore: Elisabeth Sussmann
Fra le biennali più discusse degli ultimi decenni, la Whitney Biennial del 1993 aprì all’insegna del politically correct e del multiculturalismo. Pochi i dipinti in mostra, molte le installazioni (Charles Ray), le performance (Coco Fusco in una gabbia vestita da nativa americana), le sculture in situ e i video (Matthew Barney). Trenta su quarantatré artisti erano esordienti; le donne, tra cui diverse di colore, erano circa la metà del totale. Su uno dei badge della mostra si leggeva la scritta di Daniel J. Martinez, I can’t ever imagine wanting to be white. Negli ultimi anni la mostra è stata rivalutata: non solo fece dell’istituzione museale uno spazio inclusivo, ma promosse anche il multiculturalismo come canone espositivo.
SEVEN STORIES ABOUT MODERN ART IN AFRICA
Whitechapel Gallery, Londra, 1995
curatori: Clémentine Deliss con Chika Okeke-Agulu, Salah Hassan, David Koloane, Wanjiku Nyachae e El Hadji Sy
La mostra, descritta dalla critica Jean Fisher come “parte della baldoria multimediale chiamata Africa 95” (una serie di eventi sull’arte africana che si tenne nel Regno Unito quell’anno), è oggi ritenuta una delle più importanti degli Anni Novanta e la prima a ricostruire il contesto storico del modernismo africano attraverso le sue narrazioni locali. Divisa in sette “storie” relative ad altrettanti Paesi del continente africano, la mostra si presentava con una forma estremamente elaborata, frutto di ricerche approfondite e di una serie di seminari che Clémentine Deliss organizzò alla SOAS – School of Oriental and African Studies di Londra. La mostra fu criticata per il suo allestimento, ritenuto troppo confuso.
THE SHORT CENTURY
Museum Villa Stuck, Monaco, 2001
curatore: Okwui Enwezor
The Short Century: Liberation Movements in Africa 1945-1994 si pose come obiettivo un’analisi approfondita del modernismo africano al tempo dell’indipendenza – dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, con cui coincisero i movimenti di liberazione nazionale, al 1994, anno delle prime elezioni democratiche in Sud Africa. L’intenzione di Enwezor era mettere in mostra il modernismo africano adottando un taglio multidisciplinare che includesse, oltre alle arti visive, anche cinema, architettura, urbanizzazione, fotografia, musica, teatro, letteratura e grafica. Nonostante l’obiettivo di rappresentare a tutto tondo l’arte africana, la scelta cadde in gran parte su artisti degli Anni Novanta provenienti dall’Africa sub-sahariana.
DOCUMENTA 11
Kassel, 2002
curatori: Okwui Enwezor con Carlos Basualdo, Ute Meta Bauer, Susanne Ghez, Sarat Maharaj, Mark Nash e Octavio Zaya
Per la prima volta diretta da un curatore non europeo, la Documenta 11 è ricordata come la prima “globale” e portavoce di una metodologia e di un’etica postcoloniale. Si componeva di cinque piattaforme che “miravano a descrivere l’attuale posizione della cultura e le sue interfacce con altri sistemi di conoscenza globali complessi”. Le piattaforme vennero presentate in quattro continenti diversi prima dell’apertura ufficiale a Kassel: Democrazia Irrealizzata (Vienna e Berlino) Esperimenti con la verità: giustizia transitoria e processi di verità e riconciliazione (Nuova Delhi), Créolité e creolizzazione (St. Lucia) e “Sotto assedio”: Quattro città africane, Freetown, Johannesburg, Kinshasa e Lagos (Lagos). In linea con la premessa che “l’arte è produzione della conoscenza”, molte delle opere presentate a Kassel furono a carattere documentario e anche per questo la mostra fu accusata di poca accessibilità e di sovrapproduzione teorica.
ENERGY/EXPERIMENTATION
The Studio Museum in Harlem, New York, 2006
curatore: Kelly Jones
Esponendo un gruppo di 15 artisti di colore, Energy/Experimentation: Black Artists and Abstraction 1964–1980 proponeva un bilancio dell’esperienza visiva del tardo modernismo, stimolando una riflessione sull’intersezione fra astrazione e politica. La sua attenzione si concentrava infatti su una selezione di artisti, attivi durante i movimenti per i diritti civili, che avevano scelto di non adottare uno stile realista e socialmente impegnato, come ci si sarebbe aspettato. Affrontando e mettendo in discussione alcuni stilemi chiave del modernismo, questi artisti si distaccavano dallo stile adottato dal Black Arts Movement, facendo coincidere radicalismo politico ed estetico-formale, oltre a criticare i canoni di Clement Greenberg e le sue forme elettive, come la pittura monocroma e minimalista.
REBELLE. ART AND FEMINISM 1969–2009
MMKA, Arnhem, 2009
curatore: Mirjam Westen
La mostra presentava le opere di 100 artiste che riflettevano, adottando metodologie e stili diversi, su questioni come l’identità di genere, la sessualità, il corpo, la misoginia, la razza, il razzismo. Il taglio femminista adottato dalla curatrice includeva anche tematiche queer e postcoloniali. Pur senza fornire coordinate spazio-temporali precise, la mostra era organizzata per sezioni tematiche, una delle quali dedicata a Lesbian and Black identities.
NOW DIG THIS! ART AND BLACK LOS ANGELES 1960–1980
Hammer Museum, Los Angeles, 2011-12
curatore Kelly Jones
Kelly Jones celebrava in questa mostra la storia multiculturale di Los Angeles, presentando un gruppo di artisti afroamericani rappresentativi della produzione culturale e delle pratiche artistiche sviluppatesi in città fra Anni Sessanta e Settanta. Le 140 opere presentavano un paesaggio non limitato all’arte afroamericana ma cercavano di rappresentare la varietà della scena artistica californiana.
WITNESS: ART AND CIVIL RIGHTS IN THE SIXTIES
Brooklyn Museum, New York, 2014
curatori: Teresa A. Carbone, Andrew W. Mellon e Kellie Jones
In coincidenza con il 50esimo anniversario del Civil Rights Act, la mostra offriva uno sguardo sulla produzione artistica – pittura, scultura, grafica e fotografia – che aveva contraddistinto un decennio definito dalle proteste sociali, in particolare relative ai diritti civili. Adottando un approccio metodologico incentrato sull’identità politica ed etnica, la mostra esponeva l’opera di 66 artisti: non solo afroamericani, ma anche bianchi, latini, asiatici-americani, nativi-americani e caraibici, accomunati dall’attenzione per questioni razziali.
THE COLOR LINE
Musée du Quai Brainly, Parigi, 2016-17
curatore: Daniel Soutif
Prima nel suo genere nel panorama francese, The Color Line. Les artistes africains-américains et la ségrégation riscopriva artisti e intellettuali afroamericani, in particolare appartenenti allo Harlem Renaissance Movement. La mostra cercava di illuminare il problema razziale attraverso l’esposizione di opere d’arte e oggetti storici: poster, foto, spartiti, sculture, filmati, libri e riviste. Non mancavano le copertine degli album di Michael Jackson, a testimonianza del suo progressivo sbiancamento. Era esposto anche materiale audio-video d’archivio che illustrava il modo i cui i neri americani avevano promosso la loro rappresentazione e manifestato la loro voce, in una mescolanza di elementi provenienti sia dal patrimonio americano che da quello europeo. Nel tentativo di sensibilizzare il pubblico francese verso le questioni razziali, il titolo della mostra citava una famosa frase di W. E. B. Du Bois: “The problem of the Twentieth Century is the problem of color line”.
WE WANTED A REVOLUTION
Brooklyn Museum, New York, 2017
curatore: Catherine Morris e Rujeko Hockley
We wanted a revolution: Radical Women 1965-1985 esaminava le priorità sociali e culturali delle donne di colore durante l’emergere di quella che viene chiamata second-wave feminism. Presentando il lavoro di 40 artiste nere o latine, la mostra si proponeva di riorientare il discorso femminista mainstream – formato per la maggior parte di donne bianche e appartenenti alla classe media – ampliandolo a discorsi sul problema della razza e mettendo in risalto la diversità delle esperienze delle donne di colore tra la metà degli Anni Sessanta e la metà degli Ottanta. L’esposizione si faceva in qualche modo portavoce del pensiero femminista terzomondista (third world feminism), che accusava la seconda ondata femminista di avere un approccio egemonico e colonizzatore.
SOUL OF A NATION: ART IN THE AGE OF BLACK POWER
Tate Modern, Londra, 2017
curatori: Mark Godfrey e Zoe Whitley
La mostra illustrava l’opera di artisti di colore in un periodo, 1963-1983, tra i più politicamente, socialmente e culturalmente rivoluzionari, guardando all’influenza dei Civil Rights e del Black Power Movements sugli sviluppi del minimalismo e della pittura astratta. Le 150 opere in mostra mettevano in risalto l’importanza del momento storico e affrontavano il tema dell’ingiustizia sociale, come la bandiera “sanguinante” di Faith Ringgold e le immagini di Emory Douglas; altre presentavano riferimenti alla violenza razziale, come l’omaggio astratto di Jack Whitten a Malcolm X o le contorte sculture di metallo di Melvin Edwards.
COLORED PEOPLE TIME
ICA, Philadelphia, 2019
curatore: Meg Onli
Andata in scena all’ICA di Philadelphia, la mostra presentava una struttura sperimentale, divisa in tre “capitoli” successivi – Mundane Futures, Quotidian Pasts e Banal Presents – che legano riflessioni su questioni razziali e identitarie alla nozione di tempo. Il titolo si riferisce a una temporalità e un sistema di comunicazione della comunità afroamericana che si suppone incomprensibile ai parlanti della classe dominante. Sullo sfondo, la questione centrale è la persistenza della subalternità dei neri d’America.
‒ Lara Demori
Articolo pubblicato su Artribune Magazine#49
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