I musei come luoghi di esclusione? L’editoriale di Fabio Viola
Per attrarre porzioni sempre più ampie di pubblico i musei devono modificare il proprio approccio in termini di comunicazione e proposte. Sfatando certi retaggi elitari.
Nel dicembre del 1931, lo Science Museum of London inaugurò la “Children’s Gallery”, un’area innovativa pensata per stimolare l’interesse e la curiosità dei bambini verso la scienza e le tecniche. Per la prima volta al mondo si avviò un processo di effettivo e duraturo ampliamento dei pubblici, dedicando una superficie permanente al raggiungimento delle fasce più giovani, e meno specializzate, della popolazione. Una fuga progettuale in avanti verso installazioni che oggi definiremmo “interattive” e un metodo di apprendimento “imparare facendo” che non mancò di accendere un aspro dibattito in Inghilterra.
Se la stampa generalista sottolineò la perfetta sinergia tra educazione e intrattenimento, “a playground at once amusing and illuminating” (un parco giochi al contempo formativo e divertente), dall’altra parte una larga fetta della comunità scientifica inglese osteggiò questa iniziativa, vista come una deriva rispetto alla missione e visione fino ad allora consolidate. Questa posizione trovò plastica evidenza nell’edizione di aprile della rivista ufficiale del museo “We could not help fearing that all this may be going too far and not quite in the right direction” (Abbiamo il timore di star andando troppo oltre e probabilmente non nella giusta direzione).
La visionaria idea dell’allora direttore dello Science Museum of London, il colonnello Sir. Henry Lyons, di voler dialogare primariamente con la gente “comune” (“ordinary visitor”), il largo pubblico, disarticolava il modello imperante di istituzioni culturali portate avanti da specialisti esclusivamente per altri specialisti. Spazi in cui vigevano codici, rituali, linguaggi comprensibili da un ristretto numero di persone, oggi le chiameremmo élite culturali, e incomprensibili alla stragrande maggioranza della popolazione.
Quanto accaduto nel contesto museale londinese riflette una secolare stratificazione di una cultura di “pochi per pochi”, dove la cinghia di trasmissione è circolare e ha come oggetto, sia nelle fasi di produzione sia in quelle di consumo, una enclave dai connotati sociali molto ben delineati, a cui l’accesso è stato garantito per nascita. Aristocratici e religiosi, a cui seguì la ricca borghesia commerciale, divennero i depositari della cultura e gli unici in grado di aprire le rigide maglie attraverso specifici e sporadici meccanismi di cooptazione.
Sarà un processo estremamente lento, e non privo di attacchi, a portare la cultura verso una fase di “pochi per molti”. I meccanismi di produzione non subirono mutamenti sostanziali, mentre i destinatari, il target, mutò radicalmente. La diffusione dei primi giornali a larga tiratura stampati, i “quotidiani”, l’accesso domestico al sapere mediante le enciclopedie, l’avvento della radio, televisione e cinema contribuirono a una partecipazione molto più generalizzata e orizzontale al consumo culturale. Immutato, o quasi, il ruolo egemone delle élite a cui continua a spettare il ruolo in via esclusiva di produzione culturale. La nuova cultura di massa novecentesca massa è direttamente collegata alla produzione di massa, mediante la quale l’industria riesce a produrre beni in grandissime quantità, sfruttando la logistica e la catena di montaggio, l’economia di scala.
POCO PER TANTI?
Nonostante i profondi cambiamenti sociali, economici e tecnologici avvenuti nel XXI secolo, gran parte della infrastruttura culturale pubblica è largamente ancorata a meccanismi “pochi per tanti”, una monade isolata in un contesto che sta spingendo verso un passaggio a una cultura prodotta da “tanti per tanti”. Nell’epoca della rivoluzione post industriale, di cui internet è l’emblema, l’accesso istantaneo e, spesso, gratuito alle informazioni richiede profondi ripensamenti nella struttura dei musei.
Le istituzioni culturali devono ancora essere luoghi in cui cercare risposte, ancora scritte con linguaggio iniziatico da specialisti? O piuttosto dovrebbero diventare luoghi in cui porre domande? Nella mia personale visione dovrebbero diventare case aperte a una pluralità di linguaggi e codici in cui ciascun gruppo sociale, indipendentemente dai propri set cognitivi e culturali, dovrebbe essere in grado di riconoscersi e apportare direttamente un proprio contributo. Proseguendo lungo l’attuale rotta, il museo rischia di diventare un luogo di esclusione più che di inclusione; un allontanamento tanto delle classi più giovani e meno acculturate (come ci confermano i dati di accesso alla cultura diffusi dall’Istat) quanto dei giovani artisti che non trovano casa nei luoghi istituzionalizzati.
In un’epoca sempre meno verticale e sempre più orizzontale, per quanto questo continui a far storcere molto più di un naso, l’assurda compartimentalizzazione della cultura diventa un bagaglio pesante che rischia di inibire un viaggio da parte di passeggeri desiderosi di muoversi lungo tale infrastruttura. Un lascito stratificatosi nel Rinascimento che ci portiamo dietro: musei, pinacoteche, gallerie, teatri, biblioteche, gipsoteche. Una compartimentalizzazione militare della cultura molto vicina alla strutturazione delle pesanti enciclopedie novecentesche e molto lontana dall’epoca degli hyperlink e contenuti multimediali di Wikipedia.
“Le istituzioni culturali devono ancora essere luoghi in cui cercare risposte, ancora scritte con linguaggio iniziatico da specialisti? O piuttosto dovrebbero diventare luoghi in cui porre domande?”
Non avrebbe forse più senso superare rigidi schematismi a favore di Case della Cultura focalizzate sulla tematica e in grado di far convivere e interagire periodi e supporti artistici. Un unico luogo in cui sculture, quadri, libri, videogiochi, film, arte digitale diventano parte integrante, e non feticcio religioso, di una narrazione unica.
Un cambio di prospettiva dovrebbe investire anche l’idea stessa di “arte come oggetto” a favore di “arte come processo”. Superando la sacralità messianica dell’oggetto/feticcio da contemplare in rispettoso silenzio, si avvia una fase storica in cui l’idea di arte deriva dalla relazione paritaria tra oggetto, visitatore e luogo in cui i primi due si ritrovano.
L’arte, così come i luoghi dell’arte, necessita visceralmente della presenza di un pubblico e del trasferimento bidirezionale di valori dall’uno all’altro, come in qualche modo indicato già nel Novecento dal Dadaismo, movimento Fluxus e arti performative.
Un passaggio dall’esperienza individuale a una collettiva tanto nel consumo quanto, soprattutto, nella produzione culturale. È altamente probabile che non nascerà più un nuovo Leonardo da Vinci, figure geniali e solitarie in grado di governare l’intero processo artistico. Il singolo sta cedendo il passo al collettivo, un insieme di artisti che lavorano insieme per governare la complessità della produzione contemporanea. Dal pioneristico Studio Azzurro in Italia al visionario Teamlab giapponese fino al collettivo internazionale di TuoMuseo, troviamo una comune componente di contaminazione di figure: creativi, maker, umanisti, sviluppatori, registi, esperti di intelligenza artificiale che convivono e si compenetrano per dar vita a esperienze artistiche come processo costante e che muta, spesso, in accordo alla relazione che le opere instaurano con il visitatore.
A fronte di singole fughe progettuali in avanti, da spazi come ZKM di Karlsruhe a iniziative come Kilowatt Festival di San Sepolcro o concorsi come Playable Museum Award del Museo Marino Marini di Firenze, larga parte del mondo culturale è ancora ostaggio della sindrome da “Disneyfication”. Quasi che la centralità del pubblico e la nuova importanza data a forme di produzione, e non solo di conservazione culturale, fosse una seria minaccia alla credibilità dell’istituzione.
La strada verso il Museo del Futuro richiede un riposizionamento attivo verso centri di produzione culturale, hub in grado di attrarre artisti, creativi e maker da tutto il mondo per immaginare e progettare il futuro. Luoghi vivi che hanno un senso nel presente grazie alla convivenza di conservazione di ciò che è stato e produzione di ciò che sarà. Ha senso che le biblioteche siano solo luogo di consultazione e non di produzione letteraria? Perché le istituzioni culturali, in partnership con singoli individui e industrie creative, non possono concorrere a generare nuove stratificazioni culturali? Perché il pubblico ha delegato completamente al privato questo ruolo attivo?
L’IMPORTANZA DELLA PARTECIPAZIONE
Penso a straordinarie esperienze portate avanti dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli con Father and Son [di cui il game producer Fabio Viola è ideatore, N.d.R.] o dalla società francese CultureSpaces con Les Carrières de Lumières, volte a creare nuovi immaginari culturali e turistici. Indipendentemente dalla espressione utilizzata, videogioco il primo e spazio immersivo il secondo, il loro successo di pubblico e critica testimonia la necessità di progettare delle stratigrafie aumentate dove il potente hardware culturale che uomo e natura hanno concorso a lasciarci in dote è modellato da nuovi linguaggi e codici. Les Carrières de Lumières, una ex cava di marmo sui monti della Provenza, attrae ogni anno oltre 600mila visitatori paganti mentre il videogioco prodotto dal Mann di Napoli, il primo di un museo statale, ha superato quota 4 milioni di download in tutto il mondo.
La sfida è aperta e Instagram, Fortnite, Spotify non rappresentano cattivi maestri quanto piuttosto modelli (e rivali) per l’attenzione dei potenziali visitatori. Comprendere e interrogarsi sulla loro capacità di raggiungere nuovi pubblici, coinvolgerli emotivamente, fidelizzarli e renderli protagonisti di una cultura prodotta da tanti per tanti significa continuare a immaginare il futuro e a prendersi rischi e critiche, così come fece il colonnello Sir. Henry Lyons lo Science Museum of London.
‒ Fabio Viola
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