Se fossi io il direttore del Prado…
Il filosofo Marco Senaldi si interroga sul nostro modo di guardare le opere conservate nei musei. Suggerendo di anteporre alla bulimia di sguardi un maggiore senso critico.
A chi glielo chiedeva, Duchamp ha sempre risposto che molto raramente metteva piede in un museo. Non era una boutade dadaista o anarchica: lui si riferiva invece al fatto che nei musei si raccoglie soprattutto la produzione mediocre di un’epoca, “perché le cose belle se ne sono già andate…”. Ma come? Andate dove? Non sono proprio i musei i luoghi dove si raccoglie e si conserva il meglio della produzione artistica di una civiltà? Non è sottoponendo i nostri figli a lunghe, talvolta lunghissime code fuori dai musei, che cerchiamo di garantire loro un’esperienza estetica unica, in grado di farli crescere culturalmente e di educarli al bello?
Forse sì, o forse – anche no. Di certo, stando alle notizie più recenti, dovremmo iniziare a essere più cauti e a riconsiderare il vero ruolo dei musei e della conservazione museale. Secondo quanto afferma Harry Bellet nel suo recente Falsari illustri (Skira, 2019) pare infatti che circa la metà delle opere conservate sarebbe opera di abili falsari. In taluni casi la situazione potrebbe farsi imbarazzante: l’ex direttore del Metropolitan Museum di New York, Thomas Hoving, citato da Bellet, non si fa scrupoli nel rivelare che, al Mimara Museum di Zagabria, l’intera collezione di dipinti e oggetti d’arte sarebbe opera di un falsario; mentre pochi mesi fa, in Francia, al Terrus Museum di Elne (vicino a Perpignan) “hanno scoperto” che più della metà delle opere del genio locale, Étienne Terrus, sono false. E, senza citare i recentissimi scandali che stanno punteggiando il mondo dell’arte (anche nostrana) nel suo complesso, credo che chiunque di noi abbia un po’ di dimestichezza con l’arte – anche se non da specialista – possa confermare che di fronte a tante opere sorgono dei dubbi, anche se poi vengono sempre soffocati dal rispetto per l’istituzione che le espone.
“Il museo è una macchina di visione: si affronta una coda senza più guardare niente, dopodiché, appena entrati, ecco che dovremmo accendere gli occhi”.
Personalmente, ricordo di essere rimasto assai perplesso davanti a un Dürer conservato alla Alte Pinakothek di Monaco, luogo peraltro capace di intimidire il visitatore con la sua straordinaria collezione – perplessità che in effetti mi si ripresentano ogni volta che mi imbatto in un capolavoro del passato troppo “strano” per essere vero, glassato di vernice trasparente come una torta di compleanno, o magari anche male illuminato – soprattutto se lo si confronta con qualcosa di certamente autentico, come Le Sette opere della Misericordia di Caravaggio conservato al Pio Monte della Misericordia a Napoli – e da lì mai più rimosso.
Ma il punto non è il falso in sé, ma ciò che effettivamente, al di là di attribuzioni o restauri, “vediamo”. Il museo è una macchina di visione: si affronta una coda senza più guardare niente, dopodiché, appena entrati, ecco che dovremmo accendere gli occhi, ecco che guide reali, audioguide virtuali, genitori zelanti e insegnanti sapienti si sforzano di far capire e far vedere – e nessuno vuol perdersi nemmeno una briciolina di immagine… E se qualcuno è sorpreso a compulsare lo smartphone, ecco che fioccano i rimproveri: va bene in coda, ma guai a farlo in una sala! – ma perché poi? Per poi, una volta usciti dal museo-macchina, ritornare ciechi e sordi? Per poi magari passeggiare davanti a un’architettura modernista di Libera o di Magistretti o di Rossi, senza manco degnarla di uno sguardo (“non siamo in un museo!”)?
“Una volta tanto qui il problema non è più che cosa dobbiamo assolutamente vedere, ma il nostro ruolo come osservatori”.
Ho rubato questo scatto (non si può fotografare…) al Prado per gioco, ma anche per dimostrare che i musei forse potrebbero servire a qualcosa di diverso che sviluppare un’insensata bulimia di sguardi. Il doppio quadro che vedete non è stato dipinto una volta da Michael Luther e poi da Damien Hirst (all’insaputa l’uno dell’atro), come successe nel 2009. Il primo, sulla sinistra, intitolato Il peccato originale, è stato realizzato da Tiziano, tra il 1560 e il 1570, mentre il secondo, praticamente una “cover”, è opera di Rubens, che l’ha dipinto nel 1628-29. È interessante guardarli attentamente, perché si potrebbe fare un gioco del tipo “scopri le differenze”. Ma potete farlo proprio perché ora le due tele sono finalmente accostate, mentre, fino a pochi anni fa, erano collocate in sale diverse del museo. Una volta tanto qui il problema non è più che cosa dobbiamo assolutamente vedere, ma il nostro ruolo come osservatori. Il quadro di Tiziano potrebbe anche passare inosservato nella pletora di capolavori del Prado, ma non lo è più nel momento in cui Rubens decide di “raddoppiarlo”. La copia rubensiana retroagisce sull’originale di Tiziano perché, da quel momento, l’opera del veneziano non è più sola. Anche se si potrebbe sospettare Rubens di mancanza di originalità, e muovergli la stessa accusa rivolta a Gus Van Sant quando nel 1998 “riprese” lo Psycho di Hitchcock del ‘60, bisogna ammettere che è proprio il “secondo sguardo” del rifacitore ciò che ci costringe a osservare in maniera totalmente nuova l’opera di partenza.
E se fossi io il direttore del Prado non avrei dubbi: leverei dalla sala tutte le altre opere e, nel vuoto delle quattro pareti, metterei questi due capolavori uno di fronte all’altro. Perché, se servono ancora a qualcosa, a questo i musei devono servire: non a farci genericamente vedere, ma a farci ri-vedere – a farci vedere il nostro stesso “doppio sguardo”.
‒ Marco Senaldi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #50
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