Movimenti (poco) artistici. L’editoriale di Fabrizio Federici
Da dove deriva la smania di “dare vita” alle opere d’arte antica, snaturando l’identità dei musei?
La gran parte delle opere d’arte, e quasi tutte quelle prodotte prima della fine dell’Ottocento, sono immobili. Le si sposta con sempre maggiore frequenza, sballottandole da una mostra all’altra, ma in sé tele e sculture rimangono impassibili. Questa loro condizione le rende un po’ scomode, in un mondo in cui le immagini in movimento, dalle gif ai video, stanno prendendo il sopravvento. E allora, in ossequio al mantra per cui occorre avvicinare il pubblico alle opere, si tenta di mettere in moto l’arte del passato: perché è più facile avvicinare le opere al pubblico, rendendole più accattivanti, che non educare il pubblico all’apprezzamento di linguaggi figurativi tanto diversi da quelli attuali. I primi passi di questa “movimentazione” si sono visti nelle mostre multimediali, in cui particolari di dipinti vengono ingranditi per “fare entrare lo spettatore dentro l’opera”. Poi è arrivata la moda di “animare” i dipinti, di “far prendere vita ai quadri” mediante modesti movimenti delle immagini. Eppure, la cosa bella di un dipinto è che viene colto un attimo ben preciso, e che si lascia allo spettatore la possibilità di immaginare quello che è avvenuto prima o che succederà poi. L’utilità e il pregio estetico di queste operazioni rimangono un mistero, anche nei casi migliori, dove si dispiegano, o meglio sprecano, un notevole sforzo e un innegabile talento tecnologico. È come voler fare miagolare un cane. A questi video se ne possono affiancare altri in cui le opere non si muovono, ma attraverso un montaggio isterico, continue accelerazioni, zoomate repentine si vuole dare un’idea di frenesia che magari ben si attaglia a una metropoli contemporanea, ma che, innestata su un quieto borgo umbro o su un affresco rinascimentale, risulta ridicola. Tempo fa mi è capitato di vedere un video del genere realizzato per il lancio di una mostra su Canova: capite, il placidissimo Canova!
“Altro che musei polverosi, occorre ridare agli spazi espositivi un’identità forte”.
Queste modalità di alterazione e visualizzazione delle immagini del passato si inquadrano in un contesto più ampio, che vede il continuo tentativo di appiattire l’arte antica, e i luoghi della sua fruizione, sul presente. Strategia perdente: perché l’arte di un tempo perde così una buona parte della complessità e del fascino che la caratterizzano, e perché il museo perde inevitabilmente la sfida con i luoghi della contemporaneità che cerca di scimmiottare (lasciando da parte le questioni legate alla tutela delle opere, una pinacoteca non potrà mai competere con una palestra come spazio in cui praticare yoga o ginnastica, fosse anche solo per l’assenza di docce e spogliatoi). La strada da percorrere, certo più impervia, è piuttosto quella opposta: sottolineare come il museo (specialmente di arte antica) sia il luogo dell’alterità rispetto al mondo in cui siamo immersi. Altro perché le immobilissime opere d’arte che contiene ci parlano da epoche remote; e altro per il fatto che al suo interno si possono fare cose che sempre più difficilmente la nostra società (reale e virtuale) ci consente di fare: guardare con cura, riflettere, conoscere, emozionarsi, fare che il tempo scorra più lentamente. Tutto questo, ma non tante altre cose: non ciò che riduce opere e allestimenti a puro sfondo (nelle sale del museo: diverso è il discorso per quelle parti del museo dove le opere non ci sono, come cortili, auditorium…). Un’idea di museo che potrebbe sembrare polverosa, ma che non lo è: si tratta di ridare agli spazi espositivi un’identità forte, riscattandoli dalla condizione di mere appendici del mondo consueto. Per rimarcare questa alterità, si potrebbero anche organizzare iniziative come un giorno della settimana in cui è vietato fare foto e selfie, o un giorno in cui non si può usare il cellulare: secondo me sarebbero un successo.
‒ Fabrizio Federici
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #18
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