Pittura (e)pura(ta). L’editoriale di Claudio Musso
Ha senso parlare di un “ritorno della pittura”? E in caso di risposta affermativa, quali sono le ragioni?
Di solito non scrivo di arte in prima persona, ma questa volta sento che non c’è alternativa per mettere nero su bianco che quello che scrivo non è altro che un’opinione personale (leggi: Disclaimer).
Non so voi, ma quando sento parlare di “ritorno della pittura” mi vengono i brividi. E invece a quanto pare ci risiamo. Premetto che non ho nulla contro l’idea, la tecnica o chi sceglie di utilizzarla, in quanto coordinatore di un corso accademico in Pittura e Arti visive sarebbe quantomeno controproducente. Mi incuriosisce il motivo per il quale, ancora una volta, mostre, fiere e riviste si concentrino sull’argomento, separandolo da tutto il resto.
Qualche tempo fa mi è capitato di vedere un documento video, un’intervista registrata da Fabrizio Varesco, in cui Giulio Guberti – per anni animatore della Loggetta Lombardesca, oggi MAR – Museo d’Arte della città di Ravenna – si esprimeva su quella stagione, dalla seconda metà degli Anni Settanta, in cui sistema e mercato tornarono prepotentemente a “corteggiare” il mezzo pittorico e chi ne faceva bandiera.
Con tono sprezzante, Guberti dichiarava: “I galleristi privati, nel momento in cui gli artisti avevano smesso di fare pittura e facevano installazioni, video ecc., non vendevano più niente […]; fu anche un’esigenza del mercato, almeno in Italia, quella di tornare al quadro, astratto o figurativo, la cosa importante era che fosse un quadro”.
In questa sede non voglio sottoporre a giudizio le parole del critico-dottore, ma semplicemente prenderle come spunto per una riflessione più ampia. Cosa significa parlare di “ritorno della pittura”? La pittura se n’è mai veramente andata? E dove poi? Non voglio fare della facile ironia, mi interessa bensì porre l’attenzione su alcune sfumature che possono derivare da questa provocazione.
“Cosa significa parlare di “ritorno della pittura”? La pittura se n’è mai veramente andata? E dove poi?”
Andiamo con ordine: se affermiamo che la pittura vive stagioni più o meno fertili (un andirivieni, potremmo dire), cerchiamo di ipotizzarne la cause. È forse colpa degli artisti, che sono talmente affascinati da altri mezzi tanto da declassarla o addirittura abbandonarla? Oppure la ragione principale è da imputarsi al cosiddetto sistema, che ne gestisce le alterne fortune? O, ancora, non sarà che continuare a utilizzare separatismi, a creare divisioni ermetiche fra le tecniche e a sviluppare discorsi di matrice diciamo così mediale possa condurre alla ricerca di una purezza che sa di epurazione?
Parlando della sua ricerca e di quella dei colleghi della Pop, James Rosenquist afferma: “Il cinema, fin dall’inizio, ha influenzato la pittura. Molti dipinti di Andy [Warhol] erano come fotogrammi di un film e lui trattava i suoi film come se fossero quadri”, aggiungendo: “Ma agli studenti d’arte veniva ancora insegnato a schizzare la vernice”. E conclude: “Su una superficie piatta bidimensionale, cerco di dipingere strati e strati di idee e farli filtrare il più lentamente possibile. Nei miei quadri pensi di poterli vedere tutti nello stesso istante”.
‒ Claudio Musso
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #51
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