Il destino delle carceri. L’editoriale di Marta Spanò
Da sempre ritenute architetture destinate al margine e alla periferia, le carceri sono luoghi che meritano una riqualificazione. Come è capitato ad alcuni ex stabilimenti di pena.
La storia dell’architettura è più lunga di quella di ogni altra espressione artistica: secondo Walter Benjamin, ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, “le costruzioni vengono accolte in un duplice modo: attraverso l’uso e attraverso la percezione. O, per meglio dire: in modo tattile e in modo ottico […]. La fruizione tattile non avviene tanto sul piano dell’attenzione quanto su quello dell’abitudine. Nei confronti dell’architettura quest’ultima determina ampiamente perfino la ricezione ottica. Anch’essa, in sé, ha luogo molto meno in un’attenta osservazione che non in sguardi occasionali”. Se solo la ricezione ottica e la percezione avessero luogo in un’attenta osservazione della realtà e degli edifici che ne definiscono lo spazio, sarebbe possibile notare come in ogni città siano presenti architetture che non possono mancare nel tessuto urbano, edifici simbolo sui quali la città stessa nasce e si sviluppa: piazze, municipi, tribunali, chiese, prigioni. Queste ultime, in particolare, vengono viste come simbolo della parte “malata” della società e, di conseguenza, subiscono una progressiva periferizzazione.
In controtendenza a chi vorrebbe cancellare dal paesaggio urbano la presenza degli storici stabilimenti di pena, se ne propone la riconversione in strutture di vita associata, cosicché si offrirebbe la condizione più idonea di reinserimento e occupazione delle strutture dismesse, proponendo nuove percezioni e letture dell’esistente. Tuttavia, è importante evitare drastiche trasformazioni causate da un (ri)utilizzo non adeguato o poco rispettoso del bene: occorrerà riflettere sulle potenzialità delle fabbriche storiche tramite un progetto che miri alla ricomposizione delle forme nella forma, a una coerente e adeguata riscrittura degli usi in risposta alle esigenze contemporanee e a un ripensamento del rapporto architettura-spazio pubblico-città; il tutto nel rispetto dei valori (materiali e non) di ogni struttura e del suo contesto.
Rifunzionalizzare e restaurare carceri dismesse è necessario soprattutto per l’interesse delle suddette fabbriche (in termini storico-monumentali, di grandezza spaziale e di centralità urbana): ex carceri come nuove architetture urbane in grado di disegnare nuove geografie (im)materiali che restituiscono e riattivano un luogo della città alla città; un’architettura, anche se carceraria, è testimonianza concreta del tempo storico in cui nasce.
Una delle risposte possibili al quesito architettonico posto da una struttura dismessa, diversa dalla demolizione, è costituita dalla riqualificazione delle ex carceri in musei o ambienti a destinazione culturale. In tal modo si attiva quella trasformazione d’uso ipotizzata da Alois Riegl per mantenere in vita il significato dei monumenti e quella verifica del diritto di esistenza di altri valori di un’architettura, diversi rispetto a quelli espressi dall’originaria funzione d’uso.
“Rifunzionalizzare e restaurare carceri dismesse è necessario soprattutto nel loro stesso interesse, in termini storico-monumentali, di grandezza spaziale e di centralità urbana: ex carceri come nuove architetture urbane in grado di disegnare nuove geografie (im)materiali che restituiscono e riattivano un luogo della città alla città”.
Fermo restando che un carcere sarà sempre allontanato a causa del suo passato, non è detto che non racchiuda in sé la possibilità (anche sul piano strutturale) di scardinare la sua vecchia funzione e subire una metamorfosi da carcere a museo; a questo punto si può ipotizzare che tanto l’istituzione carceraria quanto l’istituzione museale vogliano riscattarsi dalla loro funzione storica, metafora di sofferenza e coercizione nel caso del carcere, e di luogo “morto”, cristallizzato nel caso del museo. Pertanto un ex carcere riqualificato e funzionalmente riconvertito si configura come un luogo in cui due istituzioni diverse, se non opposte, convivono in un’antitesi coerente, in cui funzioni vecchie e nuove si incontrano e integrano rivelandosi a vicenda.
Da un punto di vista architettonico, invece, vuol dire contrapposizione dei segni di un nuovo intervento sulla preesistenza architettonica, utilizzando a vantaggio del nuovo progetto le valenze spaziali e formali della vecchia struttura. È bene che in questo processo di inserimento di nuovi segni si tenga conto del concetto di flessibilità: nonostante la rigidità architettonica imposta dalla struttura preesistente in cui il museo è destinato a inserirsi, questo deve essere in grado di adattarsi e al contempo di creare spazi flessibili entro uno scheletro predeterminato.
Esempi concreti di riqualificazione e rifunzionalizzazione di ex stabilimenti di pena sono, in Italia, i casi delle Murate – Progetti Arte Contemporanea a Firenze, delle Gallerie delle Prigioni a Treviso, del Museo dell’Ebraismo e della Shoah a Ferrara, dello Steri di Palermo (sede del Rettorato dell’Università e di un polo museale), della Rocca Albornoziana di Spoleto o, ancora, del Museo della Memoria carceraria di Saluzzo e del Museo del Carcere di Torino. Nei primi due casi si tratta di architetture restaurate e riqualificate in effettivi musei-centri di produzione di arte contemporanea; gli altri, invece, si delineano come musei di se stessi, del territorio di cui sono parte integrante e caratterizzante. Si tratta di casi che dimostrano come la riqualificazione, il recupero e la salvaguardia portano un ex carcere e il museo come istituzione ad avere la possibilità di raccontare e raccontarsi nuovamente.
‒ Marta Spanò
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #52
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati