A che servono i festival? L’editoriale di Fabio Severino
L’economista della cultura Fabio Severino si interroga sull’utilità dei festival oggi, un fenomeno in netto aumento.
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Le fiere espongono prodotti, fanno incontrare operatori. Le rassegne mettono insieme memoria e – in teoria – fanno interpretazioni ragionate dell’opera di artisti, periodi storici, scuole geografiche. E i festival? Dovrebbero presentare il nuovo. Anteprime, anticipazioni, sperimentazioni. Almeno questo è il format più nobile e sensato che abbia assunto nei secoli. L’origine è medievale.
Tanto si è detto e scritto sui festival. All’inizio del XXI secolo ce ne fu un’ingordigia. Ogni territorio doveva avere il proprio festival. Ogni sindaco inventava festival o finanziava – con i soldi di altri, beninteso – iniziative culturali. C’era il festival della qualunque. Perché il festival, dovendo portare novità, è evento e mediaticità, è attualità e presenzialismo. Con le elezioni dirette è stata subito colta la leva propagandistica e commerciale di consenso. Se ne contarono migliaia. Forse sono tuttora migliaia. Nessuno si nega di autochiamarsi ‘festival’ al di là di averne le caratteristiche di novità e anticipazione, per l’appunto. Per non parlare dell’aggiunta di ‘internazionale’. Basta qualsiasi accenno non italofono per farne guadagnare lo status. Un po’ come accade per i master. Qualsiasi corso di formazione, di qualsiasi durata, livello, difficoltà, accesso, soggetto erogatore può essere master. Anche qui, a dispetto di regole universitarie stabilite ormai nel lontano 1999.
“Il problema è la soglia di accesso tassonomica. Non essendoci un regolamento formale di accesso, chiunque si autoproclama”.
Sebbene i festival servano a presentare al pubblico, specialistico e non, le novità e le anticipazioni della distribuzione, così come a premiare le produzioni più interessanti, l’altra domanda da farsi è a chi servano i festival. Perché, come tutti superficialmente se ne fregiano, altrettanto confezionano feste per il proprio ego e interesse. Attenzione: non voglio fare di ogni erba un fascio, ci sono prodotti eccellenti nei vari settori della cultura che fanno divulgazione e presentazione di artisti e opere che veramente portano avanti la società. Purtroppo il problema è la soglia di accesso tassonomica. Non essendoci un regolamento formale di accesso, chiunque si autoproclama. Per fortuna il mercato un po’ aiuta. Ciò che non funziona, va a morire.
Ma potentati che, in barba a tutti, alimentano prodotti scadenti per il piacere proprio e di qualche amico, sopravvivono sempre e sono ben più d’uno. È così che tanti soldi pubblici, location pregiate e a volte delicate vengono consumati per fare salotti quasi personali. Al di là dello spreco e dell’ingiustizia sociale e amministrativa, c’è anche un tema di cattiva divulgazione culturale. Quest’ultima non è élite, club, selezione degli invitati, tantomeno festa di qualcuno. Un festival è “festa popolare, spesso all’aperto, con musiche, balli, luminarie”, dice la Treccani. Insomma, non per forza colta, ma sicuramente l’esatto contrario di qualcosa per pochi e che lascia poco.
‒ Fabio Severino
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #52
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