Il maratoneta. L’editoriale di Marcello Faletra
La maratona è come una performance. Prendono le mosse da questo assunto le riflessioni del saggista Marcello Faletra.
La Maratona non è uno sport, è una sfida divenuta spettacolo. La funzione del maratoneta non è vincere qualcuno, ma il tempo stesso. La recente performance di Eliud Kipchoge – scendere sotto le due ore percorrendo oltre 42 chilometri – ha del miracoloso. Ma è una sfida che non avrà mai fine. Il gioco al rilancio fa parte della sfida alla seduzione del tempo. “Cosa può un corpo?”, si chiedeva Deleuze commentando Spinoza. La risposta giace nel grado di intensità che si sperimenta. In tal senso la maratona è un dramma: materializza una possibilità. Kipchoge ha dimostrato che non è soltanto un fenomeno sportivo, ma agisce, e in tal modo produce il proprio corpo. Che è il risultato di una ripetizione (la sfida interminabile). L’identità di Eliud Kipchoge si costituisce come atto performativo: dà corpo a una intensità che diventa realtà. Siamo vicini all’idea di atto performativo di John L. Austin: Kipchoge, senza essere “artista”, ha dato prova di passare dal corpo come rappresentazione al corpo come azione. Non è più il corpo della medicina che prende a riferimento il cadavere; né il corpo della chiesa che ha come riferimento il male; né il corpo dell’economia politica: la forza lavoro. È un corpo senza referente. Ma una performance che è azione senza referente è inseparabile dalla biografia: lo faceva notare molto tempo fa (1964) Harold Rosenberg a proposito della pittura d’azione americana. La sfida del maratoneta ha la stessa metafisica dell’esistenza dell’artista: l’impossibilità di separare arte e vita. Come accadeva nell’antica Grecia e nel feudalesimo, dove il rapporto col corpo era segno di agilità e di potenza personale. La rappresentazione razzista della “bestialità nera” messa in scena nei racconti dei colonialisti e nei film hollywoodiani qui è rovesciata.
“La sfida del maratoneta ha la stessa metafisica dell’esistenza dell’artista: l’impossibilità di separare arte e vita”.
Eliud Kipchoge ha fatto della sfida contro il tempo un’insegna che è anche uno spettacolo di massa: è la vittoria di tutti coloro che si specchiano in lui. Portarsi ai limiti del possibile è ciò che non è dato a tutti. Non ha sconfitto alcun rivale ma, come nel ciclismo, nel nuoto, nell’atletica leggera, ha sconfitto, temporaneamente, la sostanza stessa che dà la misura dell’agonismo: il tempo. Ma, ironia del destino, il sistema dello sport, ovvero le regole che lo fissano in una rigida serie di procedure, non riconosce a Kipchoge il record ottenuto. Nonostante il fatto che la performance sia stata misurata col laser, sotto gli occhi di tutti. Si profila una scissione fra dato reale e artefatto sistemico. L’impossibilità di legittimare ciò che la performance ha concretizzato caratterizza una fase di agonia dei sistemi chiusi. Una specie di entropia causata dall’obsolescenza delle loro stesse prerogative.
‒ Marcello Faletra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #52
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