Dalla fisiognomica agli emoji. Una mostra a Torino
Museo Nazionale del Cinema, Torino – fino al 6 gennaio 2020. Ancora pochi giorni per visitare, al Museo Nazionale del Cinema di Torino, una grande mostra che prova a indagare lo sviluppo della fisiognomia, dagli inizi del Cinquecento ai nostri giorni. Più o meno.
Lo scorso 17 luglio, in occasione del World Emoji Day, il Museo Nazionale del Cinema di Torino ha spalancato le porte a un progetto molto ambizioso, quello di fare il punto della situazione sullo studio delle espressioni umane. Approfittando del cinquecentenario della morte di Leonardo da Vinci, e della prestigiosa collezione del museo, l’esposizione offre così tanti spunti e informazioni da risultare, disgraziatamente, una sorta di calderone nel quale è stato inserito un po’ di tutto. Sono centottanta infatti i lavori in mostra, tra cinquantacinque opere originali, quarantatré tavole tratte dalla collezione di fisiognomica del museo, svariati montaggi video, app e quant’altro. Ma andiamo con ordine. Il percorso offerto dai curatori, Donata Pesenti Campagnoni e Simone Arcagni, accoglie lo spettatore sin dalla maestosa Aula del Tempio, all’interno della quale è possibile ammirare nove elmi provenienti dall’Armeria Reale di Torino e un’installazione multimediale dedicata ai “moti dell’animo” di leonardesca memoria.
I PROTAGONISTI DELLA MOSTRA
La mostra vera e propria si snoda però lungo tutta la suggestiva Rampa Elicoidale, toccando perfino la stanza laterale della Mole Antonelliana – conosciuta come l’Orecchia – adibita, per la prima volta, a spazio espositivo. Nonostante l’impostazione sia prettamente ludico/didattica, non vi è un vero e proprio ordine cronologico da seguire e ci si ritrova così proiettati, già in partenza, nel cuore del progetto. In questo primo excursus storico, che parte dal 1982 (anno in cui l’informatico Scott Fahlman ha inventato il concetto di emoticon), spiccano due libri tradotti in emoji (il Moby Dick di Melville, compilato da Fred Benenson, e Pinocchio in Emojitaliano, a cura di Francesc Chiusaroli, Johanna Monti e Federico Sangati) e l’emojitracker: un progetto, sviluppato dall’artista/hacker Matthew Rothenberg, capace di visualizzare, in tempo reale, le tipologie di emoji utilizzate su Twitter. Attraversata questa piccola parentesi iniziale si continua ammirando tutta una serie di reperti degni di una piccola wunderkammer, in particolare ci si riferisce alla preziosa collezione della storica del cinema ‒nonché fondatrice del museo stesso ‒ Maria Adriana Prolo. Tra i bestiari di Giovan Battista della Porta – piacevolmente accostati ad alcune sequenze tratte da Sciopero di Ėjzenštejn –, i Frammenti fisiognomici dell’illuminato Johann Kaspar Lavater e i disegni del primo ritrattista del Re Sole, Charles Le Brun (riprodotti, nel Settecento, su vetrini per lanterne magiche), risulta difficile disincantarsi e proseguire nella visita. Passato e contemporaneità si fondono costantemente facendo alternare reperti storici a dimostrazioni di tecniche sofisticate che vanno dal morphing passando per il face tracking e l’analisi facciale.
DALLA MASCHERA ALL’ANIMAZIONE
Bella e commovente la sezione dedicata all’uso della maschera (meravigliose quelle disegnate dalla bottega Sartori) e ai protagonisti del teatro moderno e contemporaneo: da Petrolini ad Antonio Rezza, passando per giganti quali Eduardo De Filippo, Totò e Dario Fo. Doveroso il capitolo sull’animazione, con un bel tributo al genio di Bruno Bozzetto, anche se un po’ troppo statico e ridondante. Giungendo verso la conclusione della mostra – che in realtà si completa con l’ascolto dell’installazione sonora Organum pineale allestita nell’antro Orecchia e prodotta dalla Scuola di Musica Elettronica del Conservatorio di Torino – si riesce finalmente a percepire un po’ di contatto con l’arte contemporanea ritrovandosi dinanzi a opere decisamente notevoli.
La videoinstallazione di Antonio Daniele, This is not private (capace di utilizzare il face tracking per creare un rapporto di empatia tra lo spettatore e il protagonista del video in questione), e il magistrale The quintet of remembrance di Bill Viola rappresentano sicuramente i punti più alti.
Degne di nota anche le opere provenienti dalla collezione Sandretto: Trunk, la serie di calchi funerari realizzati in gesso da Klaus Weber, e il coinvolgente Tragedy Competition di Koo Donghee.
Malgrado la presenza di oggetti estremamente interessanti, l’approccio spettacolare/goliardico che è stato adoperato, sia per la scelta del materiale informativo che per l’allestimento delle opere stesse, fa apparire l’intera esposizione come un qualcosa di estremamente caotico. La confusione che continuamente viene provocata dall’intersezione degli innumerevoli stimoli audiovisivi, mista a un trattamento superficiale di tecniche e tecnologie che avrebbero meritato più spazio, non consente purtroppo di godere al meglio dell’esperienza, risultando come una mostra pensata esclusivamente per famiglie e giovani scolaresche.
Ultimo grande neo: l’esclusione del deepfake, tecnica contemporanea che realmente può aprire delle discussioni urgenti e stimolanti non solo sul concetto di cinema e di recitazione, ma anche e soprattutto, sul senso stesso di identità e del sempre più vicino sopravvento delle intelligenze artificiali.
‒ Valerio Veneruso
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