Chiusura delle librerie: oltre la lamentela, l’analisi
Antonio Brizioli, fondatore di Edicola 518, dice la sua in merito alla crisi delle librerie, offrendo un decalogo di consigli per “resistere”.
Faccio seguito a un breve articolo scritto qui dal mio amico Massimiliano Tonelli, che a sua volta segue la litania di articoli (in questo inizio 2020 se ne contano già decine) dedicati alla chiusura di edicole e librerie storiche in tutte le città d’Italia. Un problema che conosco bene, da libraio/edicolante e nel mio piccolo anche da editore, da amico di tanti che in questo mondo hanno l’ardire di navigare, spesso a vista ma con lo sguardo fiero all’orizzonte.
La costante di quasi tutti gli articoli ripescati qua e là è l’assenza di una lucida analisi del fenomeno, cui si preferisce sempre uno sterile piagnisteo sui tempi che cambiano alternato qua e là all’elogio sperticato verso “quei pochi che ce l’hanno fatta”. Tutto sbagliato! Perché da un lato il “piantino” arriva spesso da chi l’attività defunta neanche la frequentava e soprattutto rifiuta di accettare che in questo tipo di sistema economico molto spesso si chiude, per bene o male che sia. D’altro canto, benissimo il racconto delle esperienze virtuose ma ‒ anche lì ‒vogliamo raccontare perché sono virtuose o solo raccogliere cinque righe di raccontino strappa-click sull’edicola salvata, la libreria restituita al quartiere, la super idea di qualche brillante giovane?
In tre anni di attività come fondatore e, insieme ad altri, motore di Edicola 518, mi hanno intervistato decine di volte: Corriere della Sera, Repubblica, Radio 1, Radio 24, Il fatto quotidiano, Il manifesto, Il Giornale, L’unità, tutti praticamente. Nel 90% dei casi la cosa si svolge così: “Racconta brevemente la tua storia!”, “Bravo, bella storia”. A volte neanche ti chiamano e si limitano a copia-incollare qualche frase pescata sul web. In pochi, e devo dire senza nessuna esigenza di piaggeria riguardo al fatto che Artribune è stato uno di questi, mi hanno dato la possibilità di sviluppare dei ragionamenti e raccontare davvero cosa c’è di diverso in quel che facciamo. Perché, in fin dei conti, limitarsi a narrare che qualcuno ha fatto una cosa fighissima e, ammesso che lo sia, evitare di spiegarti quale siano le scelte forti alla sua base, è un atto piuttosto sterile. Crea nel migliore dei casi ammirazione, nel peggiore invidia; ispira forme di imitazione che, badando al luccichio della forma anziché alla sostanza organica del progetto, si rivelano spesso grotteschi suicidi.
Allora non sono qua per raccontare di me, di noi, ma per provare a centrare qualche tema da cui far partire, davvero, una riflessione seria sullo stato delle librerie in Italia.
PUNTO 1. NON CHIEDIAMO ALLA GENTE SACRIFICIO, CHIEDIAMO CURIOSITÀ
Perché la prima idea da sfatare, per quanto mi riguarda, è quella secondo cui certi comportamenti vadano adottati come forma di sapiente condotta morale. Non si può impostare un’attività sul pensiero che l’utente debba prendere lo stesso libro che trova online da te “per principio”. Pagandolo di più, venendo servito da un operatore freddo come una macchina, impreparato sul tema, in luogo asettico e umoralmente sconfortante. Dobbiamo chiedere alle persone di essere intelligenti, non di essere asceti che frequentano i nostri luoghi in virtù di una scelta fra il bene e il male. Perché se dire che di là c’è “il male” mi sembra un’approssimazione credibile, pensare di essere noi “il bene” è un atto di eccessiva presunzione. Dobbiamo creare luoghi vivi, mondi confortevoli, in cui la dimensione umana sia libera di esprimersi e agitarsi, in cui il frequentatore non si senta un cliente atteso al varco ma la parte attiva di un progetto sociale, in cui l’acquisto deve esserci ma non è “il punto”. Nella costruzione dei nostri luoghi bisogna ispirarci al paradiso che abbiamo dentro, non all’inferno che vediamo fuori.
PUNTO 2. NON RESISTERE, RIVOLUZIONARE
Nell’ultimo dei tanti articoli sul tema, apparso sul Corriere della Sera una quindicina di giorni fa col titolo Le librerie che resistono grazie alle persone, si impostava tutto il ragionamento su come le librerie stiano, secondo le fortune, soccombendo o resistendo a Amazon. E “resistere”, fateci caso, è il verbo chiave di tutti questi interventi. Ora, se da libraio dovessi alzarmi la mattina pensando che il mio ruolo sociale sia “Resistere a Amazon!”, francamente preferirei dedicarmi ad altro. Amazon non è un parametro. Si tratta di una multinazionale con ambizioni monopolistiche gestita dall’uomo più ricco del mondo, che (non) paga le tasse nei paradisi fiscali, adotta metodi distruttivi, sfrutta e sottopaga il lavoro, disponendo di mezzi e risorse inquantificabili… Insomma, non è un parametro per noi. Se devo parlare in termini assoluti, ritengo che non dovrebbe esistere. Ma finché c’è non devo pormi il problema di studiarne le strategie. Ho visto librai suicidarsi per inseguire lo sconto sistematico, la disposizione tattica del prodotto, la spedizione veloce, la spedizione gratuita. Non fatelo più, vi prego! Siete i falegnami della vostra bara. Dopo aver letto l’articolo della Repubblica Milano: storie di edicole che resistono, la mia amica Giulia mi ha scritto “Il mio amico Antonio non resiste, rivoluziona”. Mi prendo il complimento, senz’altro eccessivo; voi prendetevi la linea programmatica. Non resistere, rivoluzionare!
PUNTO 3. RESPONSABILIZZARE I LETTORI, SI PUÒ
Spiegare al lettore come mai Amazon può praticare uno sconto che tu non puoi praticare, si può e si deve. E spesso il lettore capisce. Non diamo per scontato che lo sappia perché non sempre è così. Se qualcuno ti fa un ordine online e dopo 24 ore ti chiede perché non è arrivato, puoi semplicemente spiegargli che sei una realtà di poche persone che fanno tanto lavoro, che per non complicare la logistica spedisci due volte a settimana e che se gli tocca di aspettare due giorni in più, può farlo perché non sono farmaci ma libri. Beni voluttuari in fin dei conti. Magari ci butti dentro anche un po’ di sensibilità ecologica, spiegando quanto l’abuso dei corrieri sia dannoso per l’aria che respiriamo. È utile allo stesso modo spiegare tutto al lettore: i tuoi reali margini di guadagno sui libri, il funzionamento della distribuzione editoriale, le caratteristiche di ogni tua scelta. Educarlo al tuo mondo e al tuo modo. Ai tuoi fini e ai tuoi mezzi, che devono essere perseguiti con enorme coerenza. Se il lettore capisce dov’è, sarà più felice di fare la sua parte.
PUNTO 4. RESPONSABILIZZARE GLI EDITORI. È MOLTO PIÙ DIFFICILE, MA BISOGNA PROVARCI
Se non ci fossero decine di libri che analizzano la complicità degli schiavi alla loro schiavitù (consiglio di partire dal Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de la Boétie), sarebbe davvero difficile comprendere la complicità dei piccoli e medi editori nei confronti della distribuzione che li stritola. Incapaci di immaginare (figuriamoci di configurare) delle alternative, i piccoli aderiscono passivi a modalità distributive non pensate per loro e all’interno di questo meccanismo perverso cui loro stessi si sono legati contrattualmente e quindi (si presuppone) consapevolmente, scalciano, sbracciano, scalpitano per avere più spazio venendo costantemente frustrati nelle loro ambizioni.
Per capire questo paradosso, vi basti una semplice parabola: scegliendo di distribuire i nostri libri soltanto in maniera diretta (ovvero nei nostri punti vendita fisici e online, a fiere e presentazioni e nei pochi spazi di amici con cui sappiamo di poter collaborare in modo efficace), riusciamo a vendere almeno 1000 copie di ciascun libro che stampiamo. 1000 copie di venduto è per un libro di piccolo-medio editore un risultato rispettabilissimo, che molti titoli massicciamente distribuiti neanche raggiungono. O lo raggiungono a prezzo di metodi distributivi devastanti, in cui i libri partono alla volta di magazzini e centri di smistamento che li girano, spesso danneggiandoli, a librerie di ogni tipo da cui tornano indietro mesi dopo e in tutto ciò, se si vendono, garantiscono all’editore un guadagno minimo sul prezzo di copertina, una tracciatura a dir poco opaca delle vendite e un rientro economico dilazionato nel tempo.
Mi si dirà che se non aderisci a questo sistema non sei un editore credibile. Che l’editoria si fa per forza con la grande distribuzione, la promozione, le copie regalate alla stampa pregando per una recensione. Rigetto totalmente questa ipotesi. E vado avanti nella consapevolezza, quasi contraria, che nelle condizioni odierne solo pensando al di fuori di questo sistema (quanto meno, come fanno molti, con un piede dentro e un piede fuori) si possa essere dei veri editori ovvero, etimologicamente, dei “generatori di significato”.
PUNTO 5. ELIMINARE GLI INTERMEDIARI, O RIDURLI ALLO STRETTO NECESSARIO
Va da sé, secondo quanto espresso sopra, che non si può concepire una libreria indipendente senza un rapporto diretto fra editori e librai, sul vecchio adagio del “tu produci una cosa bella, io la diffondo e dividiamo i proventi a metà”. Si fa fatica a pensare che possa funzionare perché forse è troppo semplice. E mi è capitato di avere a che fare con editori che hanno rifiutato di aprire un conto vendita a queste condizioni nei nostri spazi. Cioè: tu ‒ editore ‒ rifiuti di aprire un conto in una libreria che vende tanto, che promuove i tuoi titoli, li recensisce, li consiglia, li tratta con garbo, li rendiconta con perizia e paga puntualmente. Perché? Evitate di sforzarvi, ci sono domande destinate a restare senza risposta.
La postilla è che bisogna resistere (in questo caso il verbo è pertinente) alla tendenza a fare di ogni erba un fascio. Ci sono casi in cui il servizio del distributore è prezioso e inevitabile e in quel caso è giusto che si prenda la sua fetta di torta. Esempio: mi dai la possibilità di vendere una rivista d’arte americana di cui vendo due copie a uscita e che quindi non potrei permettermi di acquistare in proprio. Usufruisco del servizio da te offerto e ti corrispondo volentieri la quota spettante. Perché tutte le spese giustificate vengono corrisposte volentieri da un commerciante intelligente.
PUNTO 6. ONLINE NON È SINONIMO DI MALVAGITÀ
Ebbene sì, dobbiamo far crollare anche lo spiacevole mito secondo cui la rovina del mondo sia stata l’avvento del commercio elettronico. Nella mia esperienza, anche online si può essere umani. Così come fisicamente si può essere automi.
Gestiamo da più di un anno un e-commerce e posso dire con orgoglio e sorpresa che non si tratta proprio di una dimensione disumanizzante, se gestita su scala umana. Le cose per noi funzionano esattamente come dal vivo. Le vendite arrivano quasi sempre al termine di confronti via mail, social, telefonate in cui si danno consigli e propongono soluzioni. Si tratta di un metodo che ci dà la possibilità di rafforzare e intensificare i rapporti con la gente che conosciamo alle fiere, alle presentazioni, e che poi a causa della lontananza fisica fatica a frequentarci durante l’anno. O al contrario ci sono rapporti che nascono online e poi, improvvisamente, culminano in incontri fisici improvvisi e meravigliosi. “Sai, sono quella di quel paesino che compra sempre quella cosa…”. “Ah, sei tu? Finalmente hai un volto!”. E quindi sì, dietro l’online ci sono le persone mentre dietro un libraio che ti attende alla cassa, freddo come la schermata di Paypal, c’è il nulla.
PUNTO 7. COLTIVARE LA PROPRIA FELICITÀ. E DIFFONDERLA
Potrebbe sembrare un punto eccessivamente naïf in una valutazione che si pone come seria e circostanziata, ma è il fulcro di tutto. Se c’è una cosa che accomuna tutti i librai che sono stati in grado di reagire a un’epoca di cambiamenti traumatici e difficili da interpretare, capaci non solo di resistere ma di essere faro ed esempio, di essere piccolo miracolo e silenziosa rivoluzione, è il fatto di essere felici, sorridenti e straripanti di amore per il proprio lavoro. Sono grandi lettori, sono preziosi consiglieri, sono gente con cui dà gusto andare a cena, a prendere una birra, a ballare o a prendere un caffè. Sono amici degli editori e autori di cui sono appassionati promotori, li ospitano a casa loro, ci si confrontano costantemente. Danno tanto e prendono altrettanto. È un lavoro difficile, precario, soggetto a fluttuazioni imprevedibili e col quale non si diventa ricchi. Farlo con tristezza è la peggiore delle torture, per sé stessi e per chi abbia in sorte di venirti a trovare.
CONCLUSIONE PROVVISORIA
Per oggi basta così. Ci sarebbe ancora tanto da dire e mi riservo di tornare ad approfondire quanto non ancora espresso o solo schematicamente introdotto. Chiudo con una postilla, anche per evitare di doverla apporre in risposta a eventuali commenti critici. Non vivo nel mondo delle favole. Faccio questo lavoro da ormai cinque anni e ne conosco per filo e per segno le difficoltà. Sono non solo libraio, ma anche edicolante, abituato al freddo, allo sgabello e alla fatica. So benissimo che ci sono problemi legali, regolamentari, fiscali, insomma, sistemici, che rendono questo lavoro poco tutelato e concorrono a questa catena inesorabile di chiusure. Problemi che vanno indagati e affrontati. Ma prima ancora di farlo ritengo si debba essere in grado di pensare al di fuori di un sistema ormai arrugginito e consunto. Quello che esageratamente si tende a chiamare rivoluzione è spesso solo essere in grado di partorire un pensiero puro e trasformarlo in azione impura. Pensare fuori dal sistema per diventare esemplari e competitivi al suo interno. Mettere in scena un confronto agonistico in cui diversi modelli culturali si confrontano e la scelta dell’utente ricade su di te in quanto rappresenti “la soluzione migliore fra quelle disponibili”. Consapevoli che molto più triste di una chiusura è l’incapacità di intravedervi nuove aperture.
‒ Antonio Brizioli
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