L’arte rotta (VII). Imprevisto e libertà secondo gli artisti
Come è mutato il ruolo dell’opera d’arte negli ultimi cinquant’anni? E quanto “pesano” l’imprevisto e il rispetto della libertà nel lavoro di un artista? Christian Caliandro approfondisce questi temi nel nuovo capitolo della sua rubrica.
Ragionando di imprevisti e simili riguardo alle opere d’arte, al modo in cui sono concepite percepite e recepite, occorre sempre tenere presente che l’opera stessa ha attraversato nell’ultimo secolo diverse mutazioni. Decennio dopo decennio, è cambiato radicalmente infatti il modo in cui funzionava, e in cui il contesto di riferimento reagiva a essa. Non si è trattato infatti solo di un cambiamento di stile – ma di ruolo e di funzione.
Ovviamente, gli ‘altri’ approcci sono stati a volte rapidamente (magari troppo rapidamente) abbandonati, lasciati indietro, scartati; oppure sono sopravvissuti sotterraneamente, riemergendo di volta in volta con aspetti differenti; e le varie “specie” di opere d’arte – e dei modi di interpretarle – sono sopravvissute fianco a fianco, sovrapponendosi o confliggendo.
Dunque, anche l’approccio verso che cosa è “imprevisto”, come utilizzarlo e come anzi farne il centro, il fulcro della propria attività, è cambiato profondamente. Nei primi Anni Sessanta – un periodo estremamente fertile per questo tema, tra new dada, pop, happening, nuovi realismi ecc. ‒ Federico Fellini per esempio gira 8½ (1963) approfittando di un evento contingente (uno sciopero) senza farsi condizionare dal continuo confronto tra il film che ‘stai facendo’ e quello ideale, virtuale, quello ‘che voleva fare’, e quindi mantenendo fino alla fine delle riprese una situazione di imprevedibilità: “L’ho girato senza vedere mai nulla di quello che facevo, perché era in atto uno sciopero di quattro mesi di tutti gli stabilimenti di sviluppo e stampa. Rizzoli voleva fermare il film, Fracassi, il direttore di produzione, si rifiutava di proseguire la lavorazione. Ho dovuto impormi, gridare, per obbligare tutti a continuare ugualmente. Ed è stata la situazione ideale. Perché a me sembra che quando vai a vedere giorno per giorno il materiale girato, vedi un altro film, vedi cioè il film che stai facendo, che comunque non sarà mai identico a quello che volevi fare. E il film che volevi fare, avendo questo continuo termine di paragone nel film che stai veramente facendo, rischia di mutarsi, si affievolisce, può sparire. Questa cancellazione del film che volevi fare deve avvenire, sì, ma soltanto alla fine delle riprese, quando in proiezione accetterai il film che hai fatto e che è l’unico film possibile. L’altro, quello che volevi fare, avrà avuto così soltanto una sua determinante funzione di stimolo, di suggerimento e ora dinanzi alla realtà fotografata non lo ricordi nemmeno più, si è come scolorito, sta scomparendo” (in Fare un film, Einaudi, Torino 2015, p. 166).
LA LIBERTÀ DI PHILIP GUSTON
Alla fine dello stesso decennio, Philip Guston va incontro a uno dei disastri più fecondi dell’intera storia dell’arte contemporanea: la mostra personale del 1970 alla Marlborough Gallery di New York, che presenta il nuovo stile “fumettistico” sviluppato dal pittore a Woodstock, si rivela un clamoroso insuccesso, che porta con sé critiche feroci da parte dell’establishment dell’epoca (da Hilton Kramer a Robert Hughes). Il solo Willem de Kooning fa eccezione, comprendendo l’eccezionalità di ciò che è appena apparso: “It’s about freedom”. L’abbandono dei canoni dell’astrattismo – e dell’Espressionismo astratto ‒ risponde a esigenze molto profonde per Guston, che hanno a che fare con la ricerca di una forma indirizzata al racconto della vita quotidiana, una narrazione figurativa capace di fondere ironia, autoironia e disperazione, autobiografia, nuova rappresentazione della realtà: “C’è qualcosa di ridicolo e miserevole nel mito che ereditiamo dall’arte astratta. Quel dipinto è autonomo, puro, e basta a se stesso – dunque noi abitualmente analizziamo i suoi ingredienti e definiamo i suoi limiti. Ma la pittura è ‘impura’. È la registrazione delle ‘impurità’ a forzare la sua continuità. Siamo costruttori-di-immagini (image makers) e guidati-dalle-immagini (image-ridden)”.
C’è in queste parole il rifiuto della “purezza”, dell’assolutezza dell’arte, a favore di una nuova rappresentazione che inglobi anzi il caos e il cattivo gusto dell’esistenza, la confusione e l’indistinzione propria della realtà, le sue “impurità” – i suoi inciampi, i suoi imprevisti ‒ non più considerate come difetti ma come elementi costitutivi dell’arte.
E LA LIKEABILITY?
E la likeability? La questione della likeability è al centro dell’opera contemporanea, proprio perché la fortissima – e solo apparentemente sotterranea – tendenza al conformismo, all’uniformarsi per il consenso, la propensione a costruire imprevisti ‘comodi’, che non siano troppo imprevedibili e destabilizzanti, l’attitudine a compiacere e a non uscire dai binari, va in senso opposto e contrario rispetto alla libertà: nel 2020 come nel 1970 (e tenendo ben presenti tutti i cambiamenti intercorsi in questo cinquantennio: compresa l’accettazione e la diffusione di quello stile allora così ‘scandaloso’, e oggi divenuto inevitabilmente likeable) “it’s about freedom”.
‒ Christian Caliandro
LE PUNTATE PRECEDENTI
L’arte rotta (I)
L’arte rotta (II)
L’arte rotta (III)
L’arte rotta IV
L’arte rotta V
L’arte rotta VI
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati