L’arte rotta (VI). Likeability e finzione nell’epoca di internet

Likeability, internet, verità, finzione. Nuovo capitolo della serie di Christian Caliandro.

Nella scorsa puntata si parlava di imprevisti che non sono tali, di imprevisti finti.
E l’imprevisto finto non funziona, perché mette al sicuro, ci conferma ciò che già sappiamo e ci consola; ci permette di sperimentare uno strano tipo di sorpresa che non ci richiede affatto di uscire dalla nostra comfort zone.
Certo, distinguere tra verità e finzione significa sempre porsi su un terreno scivoloso: specialmente in anni in cui la dimensione della “sincerità” è stata appaltata, per esempio, ai reality e ai talent show. Ma è lì, esattamente in quella distinzione e in quella disfunzione, che si annida la rottura di cui stiamo parlando.
Abbiamo detto che la likeability (e no, il termine è abbastanza intraducibile: “piacevolezza” non è la stessa cosa), proprio nel suo progettare e costruire opere ed esseri umani allo scopo di piacere, lavora a fianco e a favore della finzione, dell’artificialità. Questo mettersi-in-posa fa parte come atteggiamento della tendenza al ‘pensare positivo’ – vale a dire: pensare come gli altri, aderire ‒ propria della likeability, a eliminare e a erodere cioè le contraddizioni, gli attriti, le frizioni. Anche il contrasto, quando esiste, in questo orizzonte è fatto paradossalmente “per piacere”, e avviene secondo modalità che assicurino in qualche modo il consenso, l’approvazione.

ROBERT MORRIS E PETER SAUL

L’opera non ha nulla a che fare con questo territorio: l’opera è un attrito, un disaccordo. Uno scarto e un imprevisto. Nasce da un fastidio, nei confronti del mondo e della realtà. L’opera reagisce (o dovrebbe reagire) a tutti i tentativi di irreggimentarla, di renderla innocua, di inserirla all’interno di una cornice; l’opera funziona come un modello di fuoriuscita dal programma. Dal Controllo, che poi è il grande tema del presente (non a caso alcuni degli artisti più interessanti degli ultimi anni lavorano proprio su questo). Se l’opera ricade serenamente dentro il recinto del controllo e della likeability, risulterà inevitabilmente prevedibile.
Questo vuol dire che, se c’è un’area in cui collocare l’opera d’arte, questa ha più a che fare con una sorta di unlikeability, di indisponenza strutturale. Di negatività. Lo abbiamo visto con la dichiarazione Unavailable (2011) di Robert Morris; un grande pittore come Peter Saul (in mostra con una grande retrospettiva in questi mesi al New Museum di New York) ha sempre inseguito nella sua ricerca un’idea molto personale di cattivo gusto, ed è sempre stato consapevole del fatto che la propria arte fosse anche una reazione contro l’ipocrisia dell’arte ufficiale e istituzionale: “C’era un grande senso di purezza nell’arte americana, e pensavo che questo fosse sciocco. Volevo insultarlo”.

Francis Bacon, Sand Dune, 1983. Fondation Beyeler, Beyeler Collection, Riehen Basel

Francis Bacon, Sand Dune, 1983. Fondation Beyeler, Beyeler Collection, Riehen Basel

FRANCIS BACON E PAUL KNEALE

La negatività di cui parlo è ciò che permette la fuoriuscita rispetto al controllo; è quello che sostanzia lo scarto, che consente all’opera di riuscire nel suo intento affrontando sul serio il rischio del fallimento, e non proteggendosi dietro la cortina delle abitudini consolidate. Per Francis Bacon, per esempio, lo strumento principale era ovviamente il caso, il caso che gli permetteva di raggiungere più efficacemente il sistema nervoso e la registrazione dell’apparenza, del reale: “Ciò che voglio fare è distorcere la cosa molto al di là dell’apparenza, ma nella distorsione stessa riportarla a una registrazione dell’apparenza. (…) chi oggi è riuscito a registrare qualcosa, qualcosa che venga recepito come realtà, senza aver compiuto un grave scempio all’immagine?” (in David Sylvester, Interviste a Francis Bacon, Skira, Milano 2003, pp. 36-37).
E poi: “Con il progredire delle tecniche del cinema e di tutti i sistemi di riproduzione dell’immagine, il pittore deve essere sempre più inventivo. Deve reinventare il realismo, riportarlo al sistema nervoso attraverso la sua invenzione, perché in pittura una cosa come il realismo naturale non esiste più. Ma si sa perché molto spesso, o quasi sempre, le immagini accidentali sono le più reali? Forse non sono state alterate dal pensiero cosciente e perciò si impongono in modo più autentico e più vero rispetto a qualcosa che sia stato manomesso dalla nostra coscienza?” (ivi, p. 158).
Certo, i mezzi a disposizione del controllo sono molto più potenti oggi di quelli con cui aveva a che fare Bacon. Di recente, l’artista canadese Paul Kneale ha risposto così a una domanda che riguardava l’arte post-internet: “La cosa che chiamiamo ‘arte’ è un periodo storico, come l’arte antico – ha un punto di inizio vago che lo rende un periodo, e anche una fine, che è generalmente indicata da grandi cambiamenti in altre aree della vita. È possibile che abbiamo appena assistito a questa fine. La cosa che chiamiamo ‘internet’ è un intero modo di stare al mondo. È l’internet che conoscete attraverso la finestra del browser, ma è anche l’internet delle cose e dei materiali, l’internet delle menti, dei gusti e dei sentimenti. Dopo la conclusione del periodo storico ‘arte’, avete questo nuovo periodo ‘internet’. Perciò dobbiamo chiederci: che cosa cambia nell’estetica? Come presentiamo e rappresentiamo in questo nuovo periodo?”.
Un’idea del genere può anche essere affascinante: ma mi sembra un po’ troppo likeable per risultare davvero convincente.

Christian Caliandro

LE PUNTATE PRECEDENTI

L’arte rotta (I)
L’arte rotta (II)
L’arte rotta (III)
L’arte rotta IV
L’arte rotta V

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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