Che fine hanno fatto i curatori nella pandemia?
Ivan D’Alberto, storico e teorico dell’arte contemporanea e direttore di YAG/garage a Pescara, commenta l’apparente silenzio dei curatori in questo momento storico. E azzarda qualche ipotesi sul futuro.
Qualche settimana fa un giovane artista si chiedeva su Facebook: “Ma i curatori che fine hanno fatto?”, riferendosi al silenzio di una categoria professionale durante questo periodo di emergenza sanitaria. Effettivamente la domanda ha destato in me non poca curiosità.
Pur partecipando raramente ai talk proposti sui social, è palese come prima del Covid molto dell’arte fosse discusso sul web, mentre in questo ultimo mese e mezzo sono davvero poche le occasioni per imbattersi in questo genere di confronto. Rimanendo in ambito prettamente culturale e artistico, nelle prime fasi di emergenza le uniche notizie che giravano sulla rete riguardavano la chiusura al pubblico dei musei, delle fondazioni, delle gallerie d’arte e degli archivi, l’annullamento di mostre e di eventi artistici, e il rammarico di direttori di musei, galleristi, curatori, operatori culturali e giornalisti di settore nel non poter più svolgere il proprio mestiere.
La seconda fase effettivamente si è caricata di un silenzio assordante, derivante da una devastante presa di coscienza di non poter più mostrare quello che solitamente siamo o vogliamo sembrare di essere. Ci si è resi conto che qualcosa di assolutamente invisibile è riuscito a porre molti nella condizione di non poter più svolgere un ruolo, una professione, di non poter più esercitare quel potere decisionale che spesso è ostentato a più livelli nel sistema dell’arte. Pertanto non dovrebbe sorprenderci se un artista si chiede che fine abbiano fatto i curatori o i critici, ma in questa interrogazione diventa anche spontaneo chiedersi cosa siano effettivamente i curatori o i critici. Senza per forza di cose buttarsi in una riflessione teorica o terminologica per capire di cosa stiamo parlando, è sufficiente ricordare quanto accaduto nel 1963 presso la Galerie J di Parigi, in occasione della mostra di Daniel Spoerri. L’artista rumeno per quella mostra in galleria cucinò per diverse serate successive, mentre i critici dell’arte facevano i camerieri, in ottemperanza alla loro funzione, cioè di avvicinare i consumatori alle opere dell’artista. Se questo fosse davvero il ruolo dei critici e dei curatori, potremmo tranquillamente affermare che coloro che contribuiscono alla conoscenza dell’arte, programmano, decidono e scelgono in questo momento storico sono in stand-by. Per la prima volta, dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’arte si vede privata dei suoi traghettatori, dei suoi “camerieri”. Sarà un bene? Sarà un male? Difficile a dirsi.
“È indubbio che questa pandemia si rivelerà anche come ‘pulizia’ che determinerà una ‘speciazione’, che vedrà ‘perire’ alcuni e rinascere’ altri”.
Ma una certezza c’è! In questo particolare momento storico, chi sicuramente è in piena ricerca artistica e in piena produzione sono proprio gli artisti che, indipendentemente dall’impegno dei critici e dei curatori, stanno lavorando a pieno regime sfruttando al meglio il tempo a loro a disposizione.
Questo quadro giustamente porta a interrogarsi sull’importanza o meno di alcune figure professionali e non è difficile fare un breve excursus storico per comprendere come gli artisti, da periodi difficili, abbiano saputo prendere il meglio, anzi siano riusciti a recuperare le “forze” e a riproporsi al mondo nelle loro “vesti” migliori. È accaduto durante le storiche pandemie e se in Italia la peste nera ha rappresentato da un lato una frenata della ricerca stilistica iniziata da Giotto, dall’altro ha alimentato una virata verso quel gotico internazionale che alla paura della morte ha contrapposto un amore per la vita, per il lusso, per la resa decorativa dei dettagli. Premesse a quel gusto estetico che, dopo un secolo di relativa crisi, ha condotto a quel periodo storico che conosciamo con il nome di Rinascimento.
A tal proposito in molti hanno detto che dopo il Coronavirus e la crisi economica che ne conseguirà ci sarà una fase di ripresa, di rinascita paragonabile solo alle rinascenze carolinge, ottoniane e medicee, ma è indubbio che questa pandemia si rivelerà anche come “pulizia” che determinerà una “speciazione”, che vedrà “perire” alcuni e “rinascere” altri.
AFFIDARSI ALLA CREATIVITÀ
Così come accade in qualsiasi processo di evoluzione della “specie”, anche dopo il contagio ci sarà chi avrà superato la pandemia fortificato e chi finirà nel dimenticatoio.
A quel punto in molti sentiranno il bisogno di dichiarare: “Chi ha denaro avrà modo di risalire la china e tornare nuovamente protagonista, mentre chi non dispone di sponsor e di sostegni economici, seppur bravo, non ce la farà”. Ma questa volta non sarà così perché, di fronte a un male che si conosce davvero poco, neanche il denaro riuscirà a fare da livella, ma sarà il genio creativo umano a fare la differenza e il Rinascimento ne è stato un esempio.
Ma se questa situazione sarà premiante per gli artisti, cosa accadrà agli altri “protagonisti” del sistema dell’arte? E ed è qui che torna la domanda iniziale: e i curatori? In questa fase anche i curatori dovranno affidarsi alla propria “genialità creativa” e vivere l’esperienza dell’emergenza sanitaria come quella del setaccio: se la propria densità intellettuale sarà tale da evitare le larghe maglie di un sistema in disfacimento bene, altrimenti le conseguenze saranno palesemente immaginabili.
Pertanto al giovane artista che in piena pandemia chiedeva che fine avessero fatto i curatori rispondo, a nome di molti colleghi, che dopo aver compreso di non essere altro che dei buoni “camerieri”, in questo particolare momento siamo impegnati a lucidare “bicchieri” e “posate” per allestire, presto, nuovi “banchetti”.
‒ Ivan D’Alberto
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