L’arte rotta (XV). Il virus e la crisi della finzione
“Il mettere in mostra, il mettersi in mostra: questo tipo di ostentazione così vitale al mondo di prima, se non è saltato, risulta sempre più stonato e inadeguato adesso. Che tipo di identità finzionale vuoi proiettare verso l’esterno, infatti, se le identità di tutti sono improvvisamente e violentemente scivolate su un piano diverso?”. Le nuove riflessioni di Christian Caliandro sulla contingenza che stiamo vivendo.
Invecchia tutto; invecchia tutto molto in fretta, in questo periodo. I fatti, le opinioni sui fatti, la nostra posizione in merito alle opinioni: e, al centro di tutto questo, il virus.
“Il virus è la verità”, scriveva Ivan Carozzi in un pezzo molto interessante pubblicato all’inizio di questa emergenza. “Il virus dice la verità. Il virus strucca e palesa il mondo”. Il virus funziona cioè da “amplificatore”, per processi che ci riguardano e che erano già in atto prima della pandemia, ma che scorrevano sotterraneamente, nascosti dalla routine e dalla frenesia, dagli impegni reali o presunti, dalle scadenze, dai riferimenti…
Allora, in questi giorni che si assomigliano l’uno all’altro, possiamo confrontarci liberamente con questa nuova esperienza del tempo che il virus ci costringe a fare. Perché se è vero che ogni giorno sembra uguale al precedente e al successivo – è altrettanto vero che ogni giorno è diverso.
Una strana, e piuttosto ansiogena, forma di libertà nell’immobilità: per quanto desideri e ti sforzi di mantenere il tipo di esperienza precedente, infatti, il virus non ti invita ma ti costringe a scavare nell’ora, a concentrarti sul presente, a scoprire il senso di questo svelamento che avviene nei momenti più inaspettati.
La faccenda del dopo rimane pressoché intatta, e offre una buona angolazione da cui osservare la contraddizione tra due differenti – e opposti – modi di interpretare e gestire la realtà di ciò che ci sta accadendo: “come sarà la nostra vita dopo la pandemia”, “il mondo dopo il Coronavirus”, “quando tutto sarà finito”. Il dopo è in quest’ottica un’autodifesa, l’estremo baluardo: il tentativo come abbiamo già detto di rinchiudere, di mettere in sicurezza questa esperienza dell’ora rifugiandosi in un ipotetico futuro, dal quale guardare indietro con cognizione di causa. Ma è un’illusione – forse necessaria per mitigare la sensazione di inadeguatezza e di impreparazione rispetto all’evento che ci troviamo di fronte, e alla condizione individuale e collettiva che esso genera, in ogni momento.
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Invecchia tutto, e invecchia in fretta: i film, i libri, i pensieri.
Non solo, come scriveva Nick Cave nelle sue considerazioni, “l’atto di scrivere un romanzo, una sceneggiatura o una serie di canzoni sembra quasi un’indulgenza nei confronti di un’era scomparsa” (“Suddenly, the acts of writing a novel, or a screenplay or a series of songs seem like indulgences from a bygone era”), ma spesso anche l’atto di ‘fruire’ questi ‘contenuti culturali’ è sottoposto a questo tipo di obsolescenza rapidissima, precoce.
È una sensazione ancora molto imprecisa, confusa, difficile, nebbiosa, indefinibile e minuscola: ma ha a che fare quasi certamente con la distanza tra verità e finzione, tra sincerità e rappresentazione. È proprio che la fiction sembra fare difetto, in un’occasione come questa. Ed è anche che comincia a insinuarsi il sospetto che si sia creata una frattura che non è temporanea, ma che è destinata forse ad allargarsi e ad approfondirsi; una frattura legata al rapporto delle opere d’arte con il contesto da cui vengono fuori e con quello in cui vengono inserite. Gli oggetti culturali funzionavano cioè in un certo modo, e adesso questo modo sembra difettoso, inceppato.
Il mettere in mostra, il mettersi in mostra: questo tipo di ostentazione così vitale al mondo di prima, se non è saltato, risulta sempre più stonato e inadeguato adesso. Che tipo di identità finzionale vuoi proiettare verso l’esterno, infatti, se le identità di tutti sono improvvisamente e violentemente scivolate su un piano diverso?
La fiction è relativa alle varie dimensioni del rapporto che l’opera coltiva con il proprio ecosistema: il sovraccarico, la rigidità, la gerarchizzazione, l’esclusione appartengono al prima. E così desiderio di riempire, di ottenere un tutto-pieno, l’orrore del vuoto, l’orrore di non avere a che fare con degli spettatori e con un pubblico. L’opera nuova invece abbraccia il vuoto e il momento, ricerca una forma differente di verità, di sincerità, di spontaneità. Di intimità.
Il vuoto; l’ora. I giorni tutti uguali, e i giorni tutti diversi. La libertà, e l’accelerazione, nell’immobilità. La frattura e la sua ricomposizione risiedono qui, in queste figure dell’assenza, così come la distrazione e la concentrazione. Lo sprofondamento. L’atto di ricostruire sta forse nell’indagare a fondo questa ambiguità che è apparsa a un certo punto nelle nostre esperienze, e che non sparisce, ma che sembra voler rimanere.
‒ Christian Caliandro
LE PUNTATE PRECEDENTI
L’arte rotta (I)
L’arte rotta (II)
L’arte rotta (III)
L’arte rotta IV
L’arte rotta V
L’arte rotta VI
L’arte rotta VII
L’arte rotta VIII
L’arte rotta IX
L’arte rotta X
L’arte rotta XI
L’arte rotta XII
L’arte rotta XIII
L’arte rotta XIV
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