La posizione critica del critico
Claudio Musso fa il punto sulla difficile condizione dei critici, che trovano poche sedi in cui formarsi e, dopo, pochissimi sbocchi professionali.
Il 12 gennaio mi sono ritrovato sul supplemento “Arte” del Corriere della Sera a rappresentare la figura del critico d’arte under40 – non a mia insaputa, a dire il vero. Non posso negare che sia stata una piacevole emozione leggere l’interesse del giornalista verso il mio profilo professionale, nonché una notevole responsabilità (almeno percepita), quella di fungere da esempio di una categoria, se così la si può chiamare.
Immediatamente dopo queste prime sensazioni, l’accaduto mi ha portato a riflettere proprio su quella posizione, scomoda diciamolo pure, che occupa il critico in questo periodo storico. A partire dalla mancanza di riconoscibilità del ruolo, sono tante le questioni che contribuiscono all’impopolarità se non addirittura al tramonto della figura, ma anche dell’operato precipuo (ammesso che esista, direbbe qualcuno). Sono frequenti le invettive condotte da Renato Barilli anche su queste pagine contro quelli che lui alla anglosassone definisce i curator, rei tra l’altro a suo dire di aver usurpato le mansioni e gli incarichi che una volta spettavano ai critici.
Più che avvalorare questa tesi, essa offre lo spunto per sottolineare che di fronte alla diffusione tuttora in voga di master, dipartimenti e corsi per curatori, la stessa attenzione e la stessa forza non venga profusa verso gli argomenti della teoria dell’arte tantomeno della critica. Dove si educano i “nuovi” critici? Quando anche numerosi artisti si chiedono pubblicamente le ragioni della difficoltà di analisi, della carenza di giudizio, della (quasi) totale assenza di recensione, la risposta, seppur parziale, potrebbe cadere sulla formazione.
“Dove si educano i ‘nuovi’ critici? Quando anche numerosi artisti si chiedono pubblicamente le ragioni della difficoltà di analisi, della carenza di giudizio, della (quasi) totale assenza di recensione, la risposta, seppur parziale, potrebbe cadere sulla formazione”.
Ammesso però che siano sopravvissute sacche di buona preparazione critica, quali sono gli sbocchi professionali? Generalizzando, potrei dire che la gran parte dei colleghi ha assunto l’insegnamento, soprattutto nelle Accademie pubbliche e private come prima risorsa professionale ed economica, mentre molto esiguo è il numero di coloro che ricoprono cariche direttive all’interno di musei, gallerie e fondazioni. Senza contare che anche le testate giornalistiche, con rare eccezioni, non offrono spazi, men che meno retribuzioni alle righe redatte dagli appartenenti a questo particolare albo. A volte poi oltre il danno la beffa, i testi e gli articoli che a fatica vengono prodotti e pubblicati in occasione di esposizioni o a commento di tali attività subiscono una vera e propria (ingiustificata?) indifferenza dell’ambiente accademico, di quello universitario per lo più, perché non appartenenti per lessico, formato e impostazione ai ben più premiati per quanto omologati papers. Non era insita nella scrittura critica anche la necessità di innovare il suo stesso linguaggio oltre all’onere di affiancarsi a quello artistico tout court?
Consoliamoci con un passo de Il critico come artista di Wilde: “Quanto è diverso il mondo dell’Arte! […] Non v’è aspetto della passione che l’Arte non ci possa dare, e quelli fra noi che hanno scoperto il suo segreto possono determinare in anticipo quale sarà l’effetto delle loro esperienze”.
‒ Claudio Musso
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #54
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