Fase Due (I). Niente è come prima
La tanto attesa Fase Due è cominciata e tutto sembra essere tornato come prima, ma in realtà tutto è cambiato, anche se non vogliamo ammetterlo e tentiamo di opporci a un mutamento inesorabile. Prende il via la nuova serie di Christian Caliandro.
La Fase Due è cominciata. Tutto sembra tornato come prima – ma tutto è cambiato, in realtà.
Le disposizioni, il modo in cui la gente si muove, i ritmi, i percorsi, le indicazioni, le frecce disegnate o incollate per terra, le distanze, i pannelli di plexiglas. Parecchie di queste cose sono qui per restare: anche, e forse soprattutto, quelle immateriali. Cioè quelle più impalpabili, che hanno a che fare maggiormente con scelte e comportamenti.
Fin dall’inizio di questa emergenza, mi pare che siamo stati abituati a pensare, a credere che si trattasse solo di una parentesi, spiacevole, scomoda (terribile in alcuni casi), ma al termine della quale si sarebbe ripristinata, pressoché in tutti i suoi tratti, l’esistenza precedente. Con i suoi riti, i suoi impegni, le sue esigenze. Il suo tempo.
E invece, proprio quella della temporalità è stata come abbiamo visto la prima – e principale – dimensione a essere modificata in profondità da questa nuova situazione (per la verità, anche lo spazio non è più lo stesso: si è come ristretto, appare molto più limitato e prezioso). Nonostante tutti gli sforzi e i tentativi, il tempo non torna quello di prima. Il vecchio tempo è stato sostituito.
A mano a mano, ci siamo dovuti rendere conto del fatto che la parentesi non era una parentesi, e che non si sarebbe conclusa; eppure, qualcosa dentro di noi ci impedisce di elaborare completamente queste informazioni, e resiste con ostinazione.
La Fase Due, quindi, per ora sembra caratterizzata da una serie di sforzi tesi a rifiutare il cambiamento – sia quello superficiale sia quello più sostanziale.
Il “rinvio” dei progetti (compresi quelli espositivi) rientra nel medesimo tipo di atteggiamento: rimandi tutto, nella speranza che arrivi un momento (tra quattro mesi, tra un anno) in cui finalmente la “normalità” sarà tornata, si sarà ristabilita, pur di non modificare modalità e condizioni. I lavori dall’estero infatti rischiano di non arrivare, visitatori e turisti non parteciperebbero in massa all’evento, i motivi pratici consigliano prudenza estrema, ecc. ecc.
Tutto questo è comprensibile, certo. Eppure, probabilmente sarebbe molto più interessante e stimolante provare a confrontarsi davvero in questo momento con le sfide che il virus (divenuto nel frattempo una metafora molto potente) ci pone, dal momento che si tratterebbe non di cambiamenti piccoli ma di una trasformazione molto più strutturale, quasi esistenziale: si tratterebbe cioè – anche per ciò che riguarda mostre, assetti e spazi espositivi, modalità di produzione e di fruizione delle opere – di un cambiamento nel modo di concepire e di percepire questi dispositivi e sistemi; nei modelli di riferimento. Si tratterebbe di lasciarsi attraversare da queste sfide, invece di aggirarle ed evitarle.
Invece, dato che come abbiamo già considerato più volte il virus funziona come un perfetto amplificatore di processi già in atto, si preferisce al momento rinviare e/o apportare minime modifiche all’assetto originario, tappare i buchi qui e lì, confidando che prima o poi la tempesta passi e si lasci dietro il minor numero di cocci possibile. Consentendo al flusso di riprendere a scorrere regolarmente…
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Nel frattempo, i cambiamenti avanzano silenziosi, che noi ne siamo consapevoli o meno; il tempo continua a dilatarsi e a diventare qualcosa di diverso da quello che conoscevamo, e di cui abbiamo fatto esperienza per tutta la nostra vita. I cambiamenti sono indifferenti al nostro prenderne atto; come per il virus, noi – e la nostra consapevolezza ‒ per loro non contiamo.
Così, mentre le città d’arte (in cui i proprietari immobiliari avevano orgogliosamente convertito case e appartamenti in affitti temporanei) si accorgono di essere spopolate senza le masse che fino a poco tempo fa affluivano giorno dopo giorno, e scoprono con centri storici deserti che forse la monocultura turistica non è mai stata un’idea particolarmente brillante, Gucci decide di abbandonare le sfilate e il suo direttore creativo, Alessandro Michele, su Instagram dichiara: “Nel mio domani abbandonerò il rito stanco della stagionalità e degli show per riappropriarmi di una nuova scansione del tempo, più aderente al mio bisogno espressivo. Ci incontreremo solo due volte l’anno per condividere i capitoli di una nuova storia. Si tratterà di capitoli irregolari, impertinenti e profondamente liberi. Saranno scritti mescolando le regole e i generi. Si nutriranno di nuovi spazi, codici linguistici e piattaforme comunicative. Mi piacerebbe abbandonare l’armamentario di sigle che hanno colonizzato il nostro mondo: cruise, pre-fall, spring-summer, fall-winter. Mi sembrano parole stantie e denutrite. Sigle di un discorso impersonale, di cui abbiamo smarrito il senso. (…) Ricalibrare il tempo su passi più umani vuole essere una promessa di rinnovata cura nei confronti di questa meravigliosa comunità di intenti”.
Decisamente, tutto sembra tornato come prima – ma tutto è cambiato, in realtà.
‒ Christian Caliandro
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