Una gita alla Galleria Mundiloquium
Una nuova passeggiata immaginaria. Stavolta la meta è la Galleria Mundiloquium.
Nel mondo dell’arte ci sono molte bizzarrie, eccentricità, singolarità, stramberie, stranezze. Ma nessuna di queste particolari qualità forse in cerca di unicità è paragonabile a quella che si riscontra quando si varca l’ingresso della Galleria Mundiloquium, inaugurata a San Teodoro del Bronzo il 22 aprile 1954, in concomitanza con l’antologica di Georges Rouault al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano. Aperta dal signor Errico Gaetano Maria Pasquale Malatesta in via dei Gelsi Rossi 34, proprio di fianco all’Osteria del Perditempo dove il tempo si perde davvero piacevolmente (soprattutto se ci si ferma per un pranzo poetico), la Galleria presenta tutte le tipiche caratteristiche dello spazio votato alla ricerca e alla promozione dell’arte contemporanea: ha cinque sale espositive, un ufficio spazioso e all’occorrenza polifunzionale, un bagno ben arredato, un magazzino al quale si accede da una porta a scomparsa, un confortevole ambientino culinario (non tutti ce l’hanno) e un appartamentino per la foresteria, ubicato a un intimo piano superiore (dimora del gallerista, utile anche a ospitare i suoi artisti), per un totale di ben 367 metri quadrati.
Chi entra in Galleria ha dunque la stessa piacevolezza o magari la semplice curiosità che può esprimere quando accede a una qualsiasi elegantissima esposizione del settore dacché può girare regolarmente tra le sale facendosi accompagnare dal comunicato stampa sul cui retro è sempre rappresentata la dettagliata mappa dello spazio con le didascalie delle opere presenti. Il problema, se di problema si può parlare, subentra nel momento in cui il visitatore, dopo aver consumato la visita, varca la porta d’uscita per recarsi verso l’automobile o per andare alla piccola stazione ferroviaria di San Teodoro perché, invece di trovarsi su via dei Gelsi Rossi (all’altezza del 34, da dove era entrato), viene letteralmente catapultato all’uscita di un’altra galleria: e per giunta in un’altra città: e quando si è poco fortunati come nel mio caso, di un’altra nazione. È come dire che ci troviamo a Napoli e che dopo aver visitato la mostra di Antonio Della Guardia o di Lina Selander o di Shadi Harouni o di Oscar Santillan alla Galleria Tiziana Di Caro, all’uscita, anziché trovarci nella ospitale piazzetta Nilo per prendere magari un caffè in ottima compagnia, siamo catapultati a Torino, davanti alla Galleria Norma Mangione: e ben venga, magari abbiamo modo di guardare Colors of Ostrava di Viktor Kolář e poi fare un giro al Museo Nazionale del Cinema. Nel peggiore dei casi però potremmo trovarci a Caracas di fronte alla Galería Carmen Araujo (non per altro ma se non si ha uno zainetto con tutto il necessario potrebbe essere una piccola tragedia logistica), mentre nel migliore dei casi all’altezza della Galleria Paola Verrengia che è a Salerno o alla Galleria Alfonso Artiaco che è proprio nello stesso stabile della Galleria Di Caro, al secondo piano.
GALLERIA MUNDILOQUIUM, UNA META AMBITA
Questa particolare ed effettivamente un po’ scomoda situazione che rende appunto la Galleria Mundiloquium una meta ambita da un certo Popolo dell’Arte (non solo da Critici e Storici e Teorici) è, da qualche tempo, anche oggetto di studio e di culto per coloro che si occupano di Fisica della Fantasia, di Storia del Sogno a Occhi Aperti e a Occhi Chiusi, di Geografia dell’Aria o di tutte le varie branche, dure o molli, che compongono le Scienze dell’Immaginario.
Sono in molti i ricercatori che intervistano il signor Carlo, il quale ormai vive da tempo, per evitare giornalieri viaggi planetari, tra gli spazi della Galleria e gli ambienti domestici dell’appartamento sovrastante. Il signor Carlo, forse è importante metterlo per inciso altrimenti il lettore potrà chiedersi da dove spunti fuori questo nuovo personaggio del nostro racconto, non è altri che Errico Gaetano Maria Pasquale Malatesta chiamato da tutti Carlo, anche se non si capisce bene la ragione, perché normalmente lo chiameremmo con il suo primo nome, ovvero Errico, al massimo Enrico. Del resto Leopardi lo conosciamo come Giacomo, anche se sappiamo che all’anagrafe era Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro. Ma su questo è proprio meglio non indagare, ognuno può farsi chiamare come vuole, ognuno ha il nome che gli viene assegnato come del resto ognuno ha il nome che si assegna.
Mosso da curiosità e anche dal desiderio di guardare la mostra del momento, e in questo periodo è presente un progetto perfetto di Marina Paris a cura di Elena Giulia Rossi e Daniela Trincia, sono andato personalmente alla Galleria Mundiloquium assieme a Stefania Zuliani, Paola Taddei e Ciriaco Campus (con noi c’era anche Gaia Zadra, la compagna di Ciriaco), invitato dal gallerista per l’organizzazione della sua prossima, già fissata, personale. Ad accoglierci, un percorso – scandito in ben 4 sale – molto simile al Parco (2003) della Fondazione VOLUME!, l’indagine sui controspazi desertificati e sulle architetture dei luoghi periferici che Paris ha sintetizzato in un importante impianto dove confluiscono tutta una serie di sollecitazioni, di catalogazioni olfattive, di audio-registrazioni, di annotazioni visive. Nella quinta sala, illuminati da un pallore d’aprile, alcuni lavori più recenti sulle rovine, sulle architetture. Tra questi colpiscono sempre le cartoline che mostrano un flusso atmosferico legato ai meccanismi di condensazione e di spostamento, tipici della Traumtheorie freudiana e che raccontano il nostro tempo migliore: l’Italia della ricostruzione, del sogno, dei giardini assolati, dei sorrisi e della democrazia.
UN’AVVENTURA PLANETARIA
Assaporata la bergsoniana spatialisation du temps organizzata da Paris, ci rendiamo conto che, come ogni spettatore, anche noi siamo per forza di cose lanciati, ora che siamo pronti a uscire, verso un’avventura planetaria (San Gennaro mio fai la grazia di non farci allontanare troppo!), un viaggio di cui non si conosce la destinazione se non quando si è varcata l’antica porta sul cui epistilio in calcite bianca che quasi si confonde assieme ai suoi due piedritti con la parete retrostante, è distinguibile la scritta latina orbis unum.
Salutato il signor Carlo e presa l’uscita, devo dire che la fortuna non è stata molto dalla nostra parte (San Gennaro mio non ha fatto la grazia!) perché ci siamo trovati, tra l’altro con l’imbrunire, al numero 5 della HaZerem Street di Tel Aviv, e dunque davanti alla Gordon Gallery, dove abbiamo visitato (e a questo punto che fai non vai?) A Touch of Air, la personale di Smadar Eliasaf dove l’artista si è misurata con l’opera di Piet Mondrian. Da Tel Aviv, dopo aver scherzato sdrammatizzato e pensando ai due personaggi (Mario e Saverio) del film Non ci resta che piangere, tornare verso casa è stata un’altra bella avventura.
‒ Antonello Tolve
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