Giorni come stanze. L’editoriale di Emilia Giorgi

Dobbiamo essere “apprendisti partigiani”, come ha scritto Luciana Castellina su “Il Manifesto”. E fare tesoro di questo tempo per dare forma a un cambiamento, anche piccolo, ma reale.

Pochi giorni dopo l’inizio dell’emergenza sanitaria che ci ha visto costretti a isolarci nelle nostre abitazioni dall’oggi al domani, la paura quasi mi impediva di muovermi fisicamente, ma soprattutto congelava ogni movimento di pensiero. L’evento virale si è manifestato come una detonazione improvvisa nelle nostre vite, evidenziando con fermezza la nostra fragilità. Ci ha costretto a costruire in poche ore quella relazione con la morte che negli ultimi decenni sembrava sparita. In questo tempo fermo, chiusi in uno spazio privato e inizialmente impermeabile, si sono formati brevi ma profondi dialoghi a distanza. Tra questi, ne cito uno che ha contrastato il mio isolamento, attivando una nuova catena di riflessioni. “Tu non hai paura?” “No, direi piuttosto che la situazione è elettrizzante”. L’attributo “elettrizzante” si relaziona con qualcosa di sconosciuto che irrompe nella nostra quotidianità, dandoci la possibilità di provare forti e inedite emozioni e di rivoluzionare ogni nostro equilibrio.
Poco più di un mese dopo, in occasione della ricorrenza del 25 aprile, incontro nuovamente un invito allo stupore e alla forza dell’imprevedibilità. Luciana Castellina scrive un articolo illuminante su Il Manifesto, costruendo un tessuto di connessione tra i partigiani che hanno liberato l’Italia dal regime nazi-fascista e il tempo presente. Si può parlare dell’attualità della resistenza, in connessione con l’emergenza pandemica? In quel momento, “non si trattava di ‘resistere’” ‒ racconta la Castellina – “ma della sconsiderata ambizione di dar vita a qualcosa che non si sapeva cosa avrebbe potuto essere. Si dirà che al virus invece si deve solo resistere, in nome del ritorno al modo di vita preesistente. E invece così non è e celebrare il 25 aprile oggi vuol dire come non mai far rivivere lo spirito di quella che sappiamo esser stata non semplice resistenza ma azzardata offensiva per inventarsi uno stato che tutti potessero sentire legittimo”.

Gaia Cambiaggi, 13 aprile 2020, Genova. Courtesy l'artista

Gaia Cambiaggi, 13 aprile 2020, Genova. Courtesy l’artista

LOTTARE PER L’IMPREVEDIBILE

Con il suo intervento, Luciana Castellina ci invita a metterci in gioco, affrontare e lottare per l’imprevedibile. Ci invita ad assumerci la responsabilità singolare e collettiva di affrontare la necessaria azione di passaggio e trasformazione verso un sistema che non può che essere diverso. Usa in particolare una espressione forte di significato: “apprendisti partigiani”.
In queste due parole è nascosto il senso profondo della transizione che potremmo guidare. Come apprendisti abbiamo la possibilità dell’incertezza, del dubbio, dell’errore, della consapevolezza di poter ricominciare decine di volte. Anche con piccoli e singoli gesti. L’accoglienza dell’imprevisto, che nel testo della Castellina ha più propriamente indirizzo di trasformazione politica e sociale, diviene uno spunto eccellente per condurci a un genuino e profondo cambiamento nel campo della cultura contemporanea, in ogni sua forma.
Di mutamento si è parlato molto in questi due mesi, ma resta forte il rischio di dare vita a una vuota retorica che potrebbe non lasciare alcun segno. Sono mutati gli strumenti di espressione e diffusione, ma non cambiano le caratteristiche strutturali a cui ci ha abituato negli ultimi anni il sistema culturale. Penso alla velocità di comunicazione e consumo, alla fame di teorizzare e cercare soluzioni valide ed efficaci per tutti e prima di tutti, al tentativo di riempire ogni pausa, ogni momento libero, ogni vuoto di pensiero.
Come suggerisce Christian Caliandro, nella sua rubrica su queste pagine dedicata all’Arte Rotta, la pandemia ci insegna che le opere non potranno più porsi come meri oggetti di consumo, ma dovranno tornare a intrattenere un profondo rapporto con la vita delle persone, per esserne parte essenziale. “Insieme alla velocità di fruizione” – scrive Caliandro ‒ “ciò che viene messo in discussione immediatamente dall’emergenza attuale è proprio il territorio dell’entertainment, la predisposizione all’intrattenimento considerata fino a pochissimo fa come indiscutibile, ovvia: l’opera è di nuovo chiamata (innanzitutto da se stessa) ad altro, a fare altro e a esercitare altre funzioni”.
Torniamo al fermo immagine. Alla pausa che il virus ci impone. Durante il lockdown, siamo stati sommersi di contenuti digitali, dirette su social network istituzionali e privati, interviste, prese di posizione, spettacoli immateriali su web. Ma questi temporanei spazi pubblici digitali sono davvero capaci di catturare la nostra flebile attenzione e aprire nuove finestre di pensiero? “I would prefer not to”, avrebbe risposto Bartleby.
Torniamo al reale. “Il mondo esterno, la strada, rimane sempre, perché è quello in cui si vive veramente”, afferma Nanni Balestrini in una intervista del 2016. “Dal virtuale si può trarre ispirazione ma solo come antitesi, mai come fonte diretta. […] È come riprodurre tutto il genere umano attraverso un grande frigorifero, impedendogli di vivere quel che è il mondo nella sua materialità, nella sua temperatura”.

Possiamo costruire una nuova lettura del reale per un inedito spazio comune, attraverso la visione zenitale che ci offrono le nostre finestre, le nostre terrazze? Cambiare il punto di vista, rifiutare la frenesia dello spostamento incessante, ci conduce a osservare con nuovi occhi i paesaggi che ci circondano, negli aspetti più nascosti e invisibili, nei momenti più problematici e contraddittori. Gli scenari urbani, anche i più familiari, sembrano mutati, nella loro dimensione spaziale e temporale. Scegliere come abitare gli spazi, offrire la nostra presenza, vuol dire costruire nuove forme di interpretazione, avviare un processo, minuto ma possente, di significazione culturale.
Antonella Bruzzese mi ricorda una scena del film Smoke, diretto da Wayne Wang a partire da un racconto di Paul Auster. Il tabaccaio Auggie Wren mostra allo scrittore Paul Benjamin un progetto amatoriale composto di 12 album e 4000 fotografie condotto negli ultimi 14 anni, ogni mattina, alla stessa ora e nello stesso posto. “È la documentazione del mio angolo”.
Lo scrittore lo sfoglia rapidamente, senza prestare troppa attenzione. “Non capirai mai se non vai più piano. Vai troppo veloce, non guardi neanche le foto”, gli dice Auggie. “Ma sono tutte uguali!” ribatte Paul. “Sono tutte uguali, ma ognuna è differente dall’altra” – risponde Auggie. “Ci sono delle mattine di sole, delle mattine buie; ci sono luci estive e luci autunnali; giorni feriali e fine settimana; c’è gente con l’impermeabile e le galosce e gente con la maglietta e i pantaloncini; qualche volta la stessa gente, e qualche volta differente; qualche volta quelli differenti diventano uguali, e la stessa gente scompare”.
Quando ogni cosa potrà ripartire e il nostro ritmo tornare a quella presunta normalità che tanto ci sembra mancare, non smettiamo di cercare “il nostro angolo” di significazione. Da qui, da questo minimo spazio privato e al contempo pubblico, proviamo a far ripartire i molteplici paesaggi della cultura contemporanea, capaci di parlare di ciascuno di noi, singolarmente e insieme.

Emilia Giorgi

Il titolo dell’editoriale è tratto dal brano “Stanze” di Massimo Volume, dall’omonimo album del 1993.

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Emilia Giorgi

Emilia Giorgi

Emilia Giorgi (Roma, 1977) è critica e curatrice di arti visive e architettura contemporanee. Dal 2002 al 2009 collabora con il MiBACT, tra le altre attività alla definizione del programma culturale del museo MAXXI di Roma, dove poi lavora dal…

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