Diventare parte della città
Emilia Giorgi trae spunto dal libro “Una vita per strada” di Joseph Mitchell per raccontare le atmosfere di Roma durante e dopo il lockdown. E le attività artistiche che, nonostante tutto, hanno preso forma.
C’è un piccolo libro di Joseph Mitchell che dal 2014, anno in cui è uscito in Italia per i tipi di Adelphi, mi accompagna nelle mie camminate, spesso disordinate, attraverso la città. Così come mi accompagna nella ricerca, tanto da essere costante riferimento e incipit di lezioni e conferenze intorno alle arti contemporanee. Si chiama Una vita per strada. Ma è il sottotitolo, Diventare parte della città, a contenere il senso profondo del testo, tanto da indirizzare ogni mia pratica di osservazione ed esplorazione dei paesaggi materiali e immateriali in cui mi muovo.
Una vita per strada è un incompiuto e non lo è per caso. Nelle intenzioni del suo autore, una celebre firma del New Yorker, doveva essere il primo capitolo di un libro di memorie, avviato verso la fine degli Anni Sessanta e mai completato, come tutti i suoi testi successivi al 1964. Come scritto nella premessa dalla redazione del quotidiano americano, Mitchell è stato nel gruppo di lavoro del giornale dal 1938 al 1996, fino al momento della sua morte. Ma dopo i primi trent’anni di indefesso lavoro da giornalista, improvvisamente smette di produrre articoli, nonostante continui ad andare regolarmente in ufficio. Cosa fa Mitchell in questi decenni di presunta inattività? Ce lo racconta lui stesso in questo misterioso e denso capitolo: “Quello che amo davvero è gironzolare senza meta per la città, camminare giorno e notte per le strade. È più di un piacere, di un semplice piacere – è un’aberrazione. Di tanto in tanto, quando esco dalla metropolitana intorno alle nove del mattino per dirigermi verso il palazzo di uffici al centro di Manhattan nel quale lavoro, accade che qualcosa cambi dentro di me – di fatto perdo ogni senso di responsabilità. Raggiungo l’entrata e passo oltre, come se non avessi mai visto quell’edificio. E continuo a camminare…”. Da lì iniziano i suoi vagabondaggi, in cui perlustra tutta la città, spesso tornando ossessivamente negli stessi luoghi per scoprire modifiche per lo più impercettibili, come nuove erbacce o fiori di campo o rampicanti cresciuti nelle strade. L’obiettivo è quello di guardare la “città ordinaria, comune – non l’altezzosa, maestosa, argentea città verticale, ma la vasta città orizzontale di un grigio, di un marrone, di un rossiccio e di un rosa fuligginosi, la città intricata che cova sotto le ceneri, vecchia, inquinata e a un passo dalla demolizione”. Quando muore, nella sua abitazione trovano una ordinata collezione di reperti raccolti durante i suoi vagabondaggi e descritti su piccoli fogli di carta. Ciascuno racchiuso in un barattolo di marmellata posto su file e file di scaffali, fino a occupare ogni superficie disponibile. Una fitta narrazione della ‘sua’ città fatta per oggetti trovati e brevi descrizioni, quasi a comporre una vasta installazione dal sapore dadaista.
A Joseph Mitchell, giornalista e poeta urbano, penso spesso da quando, dopo il lockdown, sono tornata a camminare liberamente nella città. Penso a lui e alla profondità di sguardo di tanti artisti che, più o meno sottovoce, in superficie o ai margini, tentano di costruire una interpretazione autentica e originale dello spazio urbano, attraverso segni minuti, quasi invisibili. Autori che con il loro lavoro lasciano tracce nel tessuto urbano e divengono parte della città.
ROMA DESERTA E SILENZIOSA
Verso la metà di maggio esco per la prima volta in bicicletta. Roma è deserta, soprattutto il centro storico, ormai quasi disabitato. Vado diretta a Piazza Augusto Imperatore, voglio incontrare Fausto Delle Chiaie. Lui è lì, sorridente ed elettrizzato, quasi incurante dell’apocalisse in cui sembriamo proiettati. È lì con il suo effimero museo a cielo aperto che “fa concorrenza all’Ara Pacis”, come dice scherzosamente. Sono anni che ogni giorno viene con le sue piccole opere, con i suoi pezzi di carta, messaggi e oggetti scartati a cui offre nuovo significato e valore. Per lui nulla è cambiato, nulla può cambiare. Mette in mostra e in luce la città stessa, con piccoli gesti che ci offrono una pausa, un’improvvisa inversione di velocità. Li dissemina lungo la strada per disegnare un’opera, una collezione di opere, un nuovo paesaggio urbano. Una specie di tutto con niente, dove ogni singola cosa si illumina perché capace di sfuggire con ironia e leggerezza alle regole di qualsiasi sistema dell’arte. Perché l’opera è lui stesso, artista e curatore al contempo. “Una dilatazione del luogo”, come egli si definisce.
In questo strano tempo, girovagare per la Capitale è esperienza inusuale, a tratti onirica. Negli ultimi giorni, stanno tornando i primi turisti. Dopo aver visto la città vuota e sospesa, si fa quasi fatica a condividerla con altri. Vorresti ancora il deserto, lì, solo per te. Esco molto presto la mattina, per immergermi ancora nel vuoto, nel silenzio assoluto. Non incontro quasi nessuno ed è proprio così che i sensi si acuiscono, aumenta la capacità di osservazione.
Da alcuni anni, dal 2017 per la precisione, Roma è punteggiata di manifesti di film sperimentali, disegnati e dipinti a mano. Chissà quanti di voi li hanno notati, a volte sono nascosti, a volte emergono con evidenza. Sembrano presenze isolate, affissioni pubblicitarie, ma costituiscono un prezioso e colto archivio disseminato nello spazio urbano, un discorso per immagini intorno al cinema d’avanguardia, affinché non cada nell’oblio.
“Dipingo manifesti destinati esclusivamente ai muri della città. Uso la carta da modello – quella dei sarti, per intenderci – poi gli smalti, la penna bic o le matite. Una volta terminato il manifesto, giro per Roma alla ricerca del posto giusto dove affiggerlo. Mi faccio un sacco di belle passeggiate”, racconta in un’intervista Leonardo Crudi del Collettivo900, autore di questo potente progetto le cui opere non possono essere altro che parte integrante dei muri, della strada, della città. Rifiutano la sacralità dell’arte e si fondono con il paesaggio urbano, con lui si trasformano nel tempo, fino al momento in cui spariranno.
L’ACCADEMIA TEDESCA DI VILLA MASSIMO
Continuo a pensare alla necessità di invertire la velocità, osservare con attenzione anche i particolari minuti, farsi ricettore e non solo ripetitore per percepire e valorizzare anche le più pallide trasformazioni, dialogare con il contesto e con le persone. Una attenzione importante di cui per prime le istituzioni dovrebbero farsi portatrici. Ne è un esempio l’Accademia Tedesca di Villa Massimo che durante il lockdown non ha smesso di proporsi come laboratorio di sperimentazione attivo, aperto alla città e in particolare agli abitanti del quartiere romano in cui sorge. Così, nel periodo di emergenza sanitaria, l’Accademia e i suoi borsisti hanno dato vita al programma Arte per i vicini, presentando ogni sera un’opera diversa sulla terrazza, in modo che le persone potessero vederla da finestre e balconi. Una iniziativa speciale che ha scandito ogni fase cambiando forma, fino a trasformare persino la Villa in luogo di produzione di marmellate fatte dagli artisti con i limoni del giardino, da offrire in dono alla comunità della zona. Fino a giungere a oggi, con Villa Massimo si avvicina, una sequenza di gesti artistici disseminati lungo tre settimane, tutto intorno all’Accademia. Una potente operazione di arte pubblica che rompe ogni barriera e si apre al territorio e ai suoi abitanti. Costruisce relazioni. Per “diventare parte della città”.
‒ Emilia Giorgi
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