Le lotte dei neri americani nell’arte
Nel solco delle cronache più recenti, vi proponiamo una passeggiata nella storia. Alla scoperta delle opere che, dall’inizio del secolo scorso ai giorni nostri, hanno accompagnato le lotte dei neri per i propri diritti negli Stati Uniti.
È una storia lunga quanto la storia americana quella delle lotte dei neri contro una cultura e una struttura sociale costruite sulla sottomissione di una popolazione portata dall’altro lato dell’oceano in catene. Anche dopo la completa abolizione della schiavitù in tutto il Paese a fine ‘800, i neri americani hanno sempre dovuto combattere per il riconoscimento dei propri diritti. Il Novecento è stato attraversato da diverse ondate di movimenti per garantire uguaglianza a tutti i cittadini a prescindere dal colore della pelle, cancellare leggi segregazioniste e permettere alla popolazione nera di accedere a opportunità che ne consentissero l’avanzamento economico e sociale. Durante le diverse fasi di una storia fatta di rivendicazioni e lotte, l’arte è stata elemento strumentale e strategico alla diffusione degli ideali di cambiamento portati avanti dai diversi movimenti. Nei primi decenni del secolo, all’indomani dell’ondata di violenze razziali nota come Red Summer, fu la Harlem Renaissance a rivelare agli Stati Uniti l’appassionata creatività con cui le comunità nere di tutto il Paese raccontavano la propria esperienza e identità, la storia dei soprusi subiti, le lotte e l’orgogliosa resistenza, attraverso la musica, la letteratura e le arti visive. Quando poi alla fine degli Anni Cinquanta esplose il movimento per i diritti civili, esplosero anche le rappresentazioni artistiche della rinnovata consapevolezza di quella porzione della popolazione americana che si rifiutava di continuare a nascondere o sopprimere la propria identità. La forza prorompente di quell’ondata di cambiamento diede vita a gruppi e collettivi come Black Arts Movement e AfriCOBRA.
Attraverso 23 opere abbiamo ricostruito la storia della lotta per l’affermazione dei neri americani, dall’inizio del Novecento a Black Lives Matter.
‒ Maurita Cardone
1922, PORTRAIT OF MY GRANDMOTHER, ARCHIBALD JOHN MOTLEY JR.
Appena uscito dalla scuola d’arte, nel 1919 Motley fu testimone di un’ondata di violenze razziali nel quartiere di Chicago in cui era cresciuto in una famiglia multirazziale e borghese. Da lì la decisione di focalizzare la propria produzione artistica sulla popolazione nera che ai tempi veniva raramente rappresentata nelle arti visive, se non con connotazioni negative. Con il suo ritratto dedicato alla nonna nata in schiavitù, l’artista compie un gesto rivoluzionario, dimostrando come i soggetti di colore fossero degni di rappresentazione attraverso ritratti formali. I ritratti di Motley, inoltre, mostrano la varietà di fisionomie e gradazioni di pelle delle diverse persone rappresentate, esponendo il pregiudizio razziale che etichettava tutte le persone di colore come “neri”. Motley divenne poi noto per le rappresentazioni della vita notturna e dei club nell’era del jazz.
ANNI ‘20-‘30, LE IMMAGINI DELL’HARLEM RENAISSANCE, JAMES VAN DER ZEE
Negli anni in cui il quartiere di Harlem, a New York, stava diventando un fiorente centro della nuova borghesia afroamericana con una forte esplosione culturale, il fotografo James Van Der Zee documentò questa rinascita con una serie di ritratti di famiglia e fotografie della vita sociale nelle strade e nei club della zona. Nel 1969, la mostra organizzata dal Metropolitan Museum di New York, dal titolo Harlem on My Mind attinse largamente dal corpo di fotografie scattate da Van Der Zee a inizio secolo, facendo così conoscere il lavoro del fotografo, fino ad allora quasi sconosciuto. Da quel momento le sue immagini sono diventate la documentazione visiva di un periodo storico e sono considerate oggi il più autentico racconto di quegli anni.
1936, SERIE PER LA HALL OF NEGRO LIFE, AARON DOUGLAS
Nel 1936 Aaron Douglas fu incaricato di dipingere una serie di pannelli per la Hall of Negro Life della Texas Centennial Exposition a Dallas, la prima esposizione universale negli Stati Uniti a celebrare i progressi della popolazione afroamericana. La serie raccontava la storia della popolazione di origine africana negli USA, dal momento in cui fu schiavizzata e deportata fino a un futuro ideale di realizzazione sociale. Lo stile rappresentativo e narrativo scelto da Douglas, oggi considerato il padre dell’arte afroamericana, attinge dall’estetica dei muralisti progressisti che in quegli anni davano voce agli oppressi del mondo. Della serie restano solo due opere, Into Bondage e Aspiration, oggi esposte nella mostra in corso al Whitney Museum dedicata ai muralisti messicani, Vida Americana.
1940-41, THE MIGRATION SERIES, JACOB LAWRENCE
Uno degli artisti afroamericani più noti, Jacob Lawrence dedicò una sequenza di 60 dipinti alla migrazione di massa che portò migliaia di persone di colore in cerca di opportunità economiche dal Sud rurale al Nord urbanizzato e industrializzato degli Stati Uniti, nel periodo tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. I vividi quadri di Lawrence sono accompagnati da didascalie che spiegano le scene rappresentate, con un intento didascalico non celato: l’artista voleva offrire una rappresentazione ufficiale di una pagina di storia americana spesso dimenticata ma che ebbe conseguenze di lungo periodo sulla società statunitense. Già in passato Lawrence si era occupato di temi legati alla storia degli afroamericani e prima di iniziare a lavorare sulla serie, studiò approfonditamente quel periodo storico.
1956, SEGREGATION IN THE SOUTH, GORDON PARKS
La fotografia fu probabilmente una delle armi più potenti del movimento per i diritti civili. Fu infatti grazie alle immagini che mostravano le restrizioni imposte alle popolazione nera del Sud che l’indignazione nel Paese crebbe fino alla rivolta. All’interno della vasta documentazione fotografica della segregazione, tra le immagini più iconiche e di impatto sono quelle della serie Segregation in the South, realizzata da Gordon Parks per LIFE all’indomani del famoso boicottaggio degli autobus a Montgomery, Alabama. Nel corso di un viaggio nel quale lo stesso Parks si trovò più volte in situazioni di pericolo per aver violato le restrizioni imposte ai neri e per essere finito nel mirino di un gruppo di suprematisti bianchi, il fotografo riuscì a documentare gli spazi della segregazione fisica nelle città, così come la vita delle famiglie afroamericane.
1963-67, THE AMERICAN PEOPLE SERIES, FAITH RINGGOLD
Nel pieno del movimento per i diritti civili, Faith Ringgold iniziò a lavorare a una serie di 20 quadri dal titolo American People. Mescolando post-Cubismo, Pop Art e tradizione africana, l’artista cresciuta ad Harlem rappresenta, con crudezza e piglio fortemente critico, il popolo americano e le sue problematiche relazioni interrazziali. In uno dei dipinti della serie, una donna bionda, un uomo bianco e uno nero si tengono per il braccio come a formare un cordone, il nero ha un coltello in mano e sanguina, come sanguina tutta la tela, attraversata dalle strisce della bandiera americana. Il più famoso dipinto della serie è probabilmente l’ultimo, intitolato Die, in cui Ringgold rappresenta esplicitamente le rivolte e le violenze di quegli anni. L’intento dichiarato dell’artista era quello di creare turbamento nello spettatore e scuoterne la coscienza evidenziando come le questioni di razza e di classe si intrecciassero creando una morsa che schiaccia la popolazione afroamericana.
1967, WALL OF RESPECT, ARTISTI VARI
Nel South Side di Chicago un gruppo di artisti associato alla Organization of Black American Culture (OBAC) realizzò un murale per onorare gli eroi e le eroine della storia afroamericana. Furono invitati a partecipare alcuni degli artisti afroamericani più noti dell’epoca tra cui Jeff Donaldson, Wadsworth Jarrell, Jae Jarrell, Barbara Jones-Hogu e Gerald Williams che, in quell’occasione, iniziarono a ragionare sulla possibilità di creare un movimento artistico prettamente nero, non solo per contenuti, ma anche per estetica. Ne derivò la creazione di AfriCOBRA. Sul Wall of Respect erano ritratti, tra gli altri, Malcom X, Muhammed Ali, Aretha Franklin, Elijah Muhammad, Gwendolyn Brooks. Il muro fu poi distrutto da un incendio nel 1971 ma la sua influenza fu di lungo raggio. Il Wall of Respect è considerato il primo murale di strada collettivo degli USA.
1969, THE DOOR (ADMISSIONS OFFICE), DAVID HAMMONS
Nonostante la Corte Suprema degli Stati Uniti avesse già dagli Anni Cinquanta stabilito che la segregazione razziale nelle scuole pubbliche fosse incostituzionale, ancora negli Anni Sessanta nel Sud del Paese c’era una forte resistenza contro l’integrazione nelle scuole. L’opera di David Hammons rappresenta la porta di un ufficio per le ammissioni sul cui vetro si imprime l’immagine di un corpo nero, realizzata con grasso lubrificante. L’opera si può vedere da due lati: da un lato rappresenta l’esclusione degli studenti di colore dalle scuole d’élite per bianchi, mentre dall’altro racconta uno studente nero relegato in una scuola con pochi fondi e che non è in grado di garantire ai giovani di colore un’istruzione al pari di quella accessibile ai bianchi. L’opera è considerata un’immagine simbolo delle lotte per i diritti civili.
1971, REVOLUTIONARY, WADSWORTH JARRELL
Nel 1968, la coppia Wadsworth e Jae Jarrell fu tra i fondatori di COBRA (Coalition of Black Revolutionary Artists). Pittore lui, stilista lei, i due collaborarono spesso. In questo quadro omaggio all’attivista Angela Davis, il soggetto indossa il Revolutionary Suit, un tailleur-uniforme dotato di cartuccera per proiettili disegnato da Jae Jarrell. Abito e quadro vogliono entrambi sottolineare il ruolo centrale delle donne nel movimento. L’opera, che rappresenta Davis attraverso una fitta texture di scritte (tra cui compaiono le parole “love”, “black”, “revolution”, “beautiful) è un perfetto esempio della filosofia artistica del gruppo poi diventato AfriCOBRA che invitava gli artisti a utilizzare tutto lo spazio a disposizione, come fa Jarrell con questa tela, creando composizioni note come “jam-packed and jelly tight” che rimandano anche all’arte africana, orgogliosamente rievocata nello sforzo di ricucire il legame con un’identità a lungo soppressa.
1972, THE LIBERATION OF AUNT JEMIMA, BETYE SAAR
Quando Rainbow Sign, un centro artistico vicino ai Black Panther, invitò la comunità artistica a produrre opere che ritraessero eroi neri, Betye Saar decise di dedicare il suo lavoro al personaggio di Aunt Jemima, utilizzato dall’omonimo marchio di preparati per pancake per pubblicizzare i propri prodotti. La figura in stile mammy era fortemente stereotipica e idealizzava i valori del “buon vecchio Sud” schiavista. Nella sua opera l’artista le mise in una mano una scopa e nell’altra un fucile, accompagnandola a una cartolina di una donna nera con in braccio un bimbo mulatto, segno dello sfruttamento sessuale subito dalle schiave nere. Simbolo di rivolta contro il passato schiavista, il personaggio creato da Betye Saar è oggi un’icona del movimento e nel 2007 l’attivista Angela Davis disse che quell’opera diede inizio al femminismo nero. È notizia di questi giorni, che, dopo ripetute polemiche, il popolare marchio di pancake avrebbe deciso di cambiare logo e nome, riconoscendone il razzismo.
1978, TIMES SQUARE CRAWL A.K.A. MEDITATION SQUARE PIECES, POPE.L
La prima di una serie di performance per le strade della città dell’artista newyorchese lo vide gattonare, vestito in abito formale, nel traffico di 42nd street a Manhattan. L’idea era di mettere in discussione la struttura di classe della società americana e indurre una riflessione sulla possibilità di alcune fasce della popolazione di salire nella scala sociale. Negli anni Pope. L tornò più volte sulla formula del “crawling”: in una delle sue performance strisciava sull’asfalto delle strade di New York indossando un costume da Superman e con un skateboard sulla schiena (una critica del sogno americano) mentre in un’altra strisciava con in mano un piccolo vaso con una pianta fiorita (un modo per parlare a chi non sapeva nulla di arte contemporanea ma sapeva cosa fosse un fiore, spiegò poi l’artista).
ANNI ‘80, COMPOSIZIONI DI FOTOGRAFIE E PAROLE DI LORNA SIMPSON
Dopo alcune esperienze di fotografia documentaristica, Lorna Simpson capì che, nel guardare le immagini in cui ritraeva soggetti di colore, lo spettatore traeva le proprie conclusioni. Da qui la decisione di privare lo spettatore di informazioni che fornissero una guida alla lettura delle fotografie e creare invece associazioni nuove attraverso le parole, per mettere in discussione la rappresentazione delle donne di colore. Diverse delle sue serie, ritraggono soggetti femminili di spalle o con il volto tagliato dal frame della foto. L’incompletezza delle immagini, il setting neutro e una composizione volutamente rigorosa portano lo spettatore a interrogarsi sui soggetti: nascondendoli l’artista rende più visibili i suoi soggetti e avanza una critica alla obliterazione dei neri nella storia dell’arte. Nel 1990 Simpson fu la prima artista afroamericana a essere invitata alla Biennale di Venezia.
1989-OGGI, AFRICAN VILLAGE IN AMERICA, JOE MINTER
Composta da materiali di recupero e di scarto, questa grande installazione all’aperto è un omaggio alla popolazione africana portata negli Stati Uniti in schiavitù e ai loro discendenti che, con il loro lavoro, costruirono il Paese. Le sculture realizzate da Joe Minter mescolano oggetti di uso comune con elementi della tradizione africana. Per circa quarant’anni l’artista ha creato opere in ricordo di eventi storici come l’attacco terroristico da parte di suprematisti bianchi a una chiesa della città nel 1963, ma anche a commentario di eventi di attualità tra cui l’uragano Katrina, la sparatoria nella scuola elementare di Sandy Hook, l’attacco alle Torri Gemelle. L’intento dell’artista è quello di educare e far conoscere la storia americana.
1992, SOUNDSUITS, NICK CAVE
Nel 1991, a seguito di un fermo per eccesso di velocità, l’afroamericano Rodney King fu picchiato violentemente da quattro agenti della polizia di Los Angeles. Quando un anno dopo i poliziotti vennero assolti, in città esplose la rivolta. Seduto su una panchina di un parco, l’artista Nick Cave rifletteva su questi eventi quando a terra vide un ramoscello: “era una cosa di scarto che simbolicamente rappresentava come mi sentivo, in quanto uomo afroamericano”, raccontò l’artista in seguito. Da lì l’idea di raccogliere centinaia di ramoscelli e unirli in un costume. Solo quando l’artista fece per indossarlo si accorse che produceva un suono che diventava simbolo del bisogno di essere uditi. Da allora Nick Cave ha realizzato decine di Soundsuits con i materiali più diversi, spesso utilizzando oggetti trovati e di recupero e componendo danze e performance con i personaggi sciamanici creati da queste sculture indossabili. Nascondendo l’identità e quindi il colore della pelle, il genere e la classe sociale di chi li indossa, i costumi rappresentano una protezione e allo stesso tempo consentono di creare un rito collettivo di protesta.
1997, KING OF NEW YORK, BARRON CLAIBORNE
Scattata per la copertina di Rap Pages tre giorni prima della morte del rapper, la fotografia di Christopher George Latore Wallace a.k.a. Biggie Smalls a.k.a. Notorious Big con la corona appoggiata con noncuranza in testa ha assunto l’aura di un’immagine sacra. Ispirandosi alle tradizioni dei suoi antenati africani e sudamericani, Claiborne voleva rappresentare Biggie come un re, così come un re era già per la comunità hip hop di New York. La morte ad appena 25 anni dell’artista lo ha trasformato in leggenda e la fotografia di Claiborne è la rappresentazione di quella leggenda. Oggi è un’immagine simbolo della cultura hip hop e Notorious Big è un eroe di quella cultura.
2006-2014, AMERICA NEON SERIES, GLENN LIGON
È ispirata all’incipit del romanzo A Tale of Two Cities (Racconto di due città) di Charles Dickens la serie di quattro opere realizzate con tubi al neon disposti a comporre la parola America, scritta in alcuni casi al contrario o specchiata. Il romanzo di Dickens si apre con la frase “Era il migliore di tutti i tempi, era il peggiore di tutti i tempi“. Ha raccontato l’artista: “Mi resi conto che Dickens parlava del momento in cui la società si trova oggi, un momento in cui tutto sta accadendo e nulla sta accadendo; tutto è in piena espansione e tutti sono poveri. Le dicotomie tra ricchi e poveri, il progresso e l’andare indietro sembravano descrivere il punto in cui siamo in America”. Per l’artista, noto per le sue opere basate su testi, la parola America rappresenta e contiene queste contraddizioni. “Mi sono reso conto che se capovolgi le lettere, si crea una parola molto strana. È ancora la parola America, ma la parola ti viene incontro e si allontana da te allo stesso tempo”.
2008, THE HARRIET TUBMAN MEMORIAL, ALLISON SAAR
Delle 150 statue installate in luoghi pubblici della città di New York, solo 5 sono dedicate a donne e, fino al 2008, nessuna era dedicata a una donna afroamericana. Noto anche con il titolo di Swing Low, questo monumento realizzato dalla figlia di Betye Saar su una strada di Harlem, rende omaggio alla abolizionista e suffragista di Harriet Tubman che, attraverso la rete nota come ferrovia sotterranea (Underground Railroad), organizzò diverse spedizioni per portare gli schiavi fuggitivi dal Sud del Paese negli stati liberi del Nord. “Non ho voluto rappresentare Tubman tanto come una conduttrice della ferrovia sotterranea” ‒ ha detto l’artista ‒ “quanto come un treno in se stessa, una locomotiva inarrestabile che per grossa parte della sua lunga vita ha lavorato per migliorare la vita degli schiavi”.
2011, WE THE PEOPLE, NARI WARD
La frase iniziale della Costituzione degli Stati Uniti diventa un’icona nel lavoro dell’artista di origini jamaicane Nari Ward, a sottolineare l’esclusione della popolazione di colore da quel noi e da quel popolo. Ward compone la frase, scritta con gli stessi riconoscibilissimi caratteri del testo firmato da George Washington nel 1787, con centinaia di fettucce di tessuti dai diversi colori, come ad auspicare un incontro di diversità sotto gli ideali di democrazia, libertà e giustizia. Negli anni l’artista ha creato diverse versioni di questo lavoro e nel 2019 il New Museum di New York gli ha dedicato una personale intitolandola proprio We The People.
2014, A SUBTLETY, KARA WALKER
Poco prima della chiusura definitiva della mitica fabbrica di zucchero di Brooklyn e della sua trasformazione in edificio residenziale, la Domino Sugar Factory ospitò questa possente installazione di Kara Walker composta da una serie di sculture in zucchero. A dominare il gruppo, una enorme sfinge dal volto di mammy che riempiva l’ambiente saturo di odore di zucchero e dal pavimento appiccicoso. Intorno a lei, una serie di bambini dai tratti stereotipicamente afro con sulle spalle pesanti ceste si scioglievano sul pavimento nelle calde giornate dell’estate newyorchese. L’opera, distrutta dopo la mostra, era un omaggio alle donne e ai bambini di colore sfruttati e sottopagati nella raccolta e lavorazione della canna da zucchero.
2016, BLACK WOMEN ARTISTS FOR BLACK LIVES MATTER, SIMONE LEIGH
All’indomani dell’assassinio di Philando Castile da parte di un poliziotto durante un fermo stradale, Simone Leigh, nel corso della sua residenza al New Museum di New York, creò il gruppo Black Women Artists for Black Lives MAtter (BWAforBLM) che riuniva oltre 100 artiste di colore e con il quale organizzò diversi eventi, a corollario della sua mostra personale The Waiting Room, montata durante la residenza. Tra gli eventi, sessioni di meditazione per gli attivisti di Black Lives Matter e workshop e trattamenti curativi aperti al pubblico. Il progetto nasceva dalla precedente esperienza della Free People’s Medical Clinic con cui l’artista mise a disposizione della comunità del quartiere di Bedford-Stuyvesant a Brooklyn trattamenti e consulenze sanitarie gratuiti. Prendendo spunto da iniziative simili organizzate da Black Panther negli Anni Sessanta, il progetto vuole evidenziare una storia di disuguaglianze sociali che hanno reso necessaria l’assistenza sanitaria di comunità fin dai tempi dell’Underground Railroad.
2018, RITRATTI DI BARACK E MICHELLE OBAMA, KEHINDE WILEY E AMY SHERALD
Prima della fine del suo secondo mandato presidenziale, Barack Obama commissionò il proprio ritratto all’artista afroamericano Kehinde Wiley, noto per le sue rappresentazioni di giovani di colore con una ritrattistica celebrativa che attinge dalla tradizione sette-ottocentesca europea. La first lady commissionò invece il proprio all’afroamericana Amy Sherald, i cui ritratti sono caratterizzati da un realismo della rappresentazione in cui trapelano elementi decorativi tipici della tradizione africana e afroamericana contemporanea. L’opera di Wiley ritrae il primo presidente afroamericano in una posa informale e su uno sfondo fiorato, a richiamare le sue origini hawaiane. Il ritratto di Michelle Obama evoca invece una regina africana, maestosa e possente. Le due opere furono rivelate al pubblico nel 2018, oggi sono esposte nella collezione di ritratti presidenziali della National Portrait Gallery e sono le prime opere di artisti afroamericani a essere state incluse nella collezione.
2019, STRANGER FRUIT, JON HENRY
La serie di fotografie realizzate prima delle nuove ondate di proteste scatenate dall’uccisione di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis ha ricominciato a circolare in questi giorni, come rappresentazione visiva dell’angoscia di una parte della popolazione americana costretta a convivere quotidianamente con la paura e l’insicurezza. Le fotografie di Jon Henry ritraggono donne di colore in pose che evocano le madonne rinascimentali, con in grembo i propri figli: “Le madri nelle foto non hanno perso i propri figli ma capiscono la realtà, capiscono che questo potrebbe succedere alle loro famiglie”, ha spiegato l’artista. Le donne sono ritratte nel loro ambiente e sole con il proprio dolore, per raccontare come, finiti i processi e le proteste, restano queste madri e la loro infinita sofferenza. La serie prende il titolo dalla nota canzone di Billie Holiday contro i linciaggi.
2020, BLACK LIVES MATTER, ARTISTI VARI
È iniziato tutto dalla Casa Bianca: quando Donald Trump, preceduto dalle forze dell’ordine che lanciavano lacrimogeni sulla folla, ha voluto provocatoriamente attraversare il gruppo di manifestanti radunati per protestare contro la brutalità della polizia nei confronti dei cittadini di colore, per andare a farsi una foto davanti a una chiesa con una bibbia in mano, una parte del Paese è inorridita. Ma la risposta del movimento non si è fatta attendere e, all’indomani della passeggiata di Trump, gli attivisti hanno dipinto una gigantesca scritta Black Lives Matter proprio sul tratto di strada davanti alla Casa Bianca. Il comune ha poi voluto intitolare al movimento la strada stessa, cambiandole nome. Nei giorni a seguire, tantissime città americane hanno seguito l’esempio della capitale e dipinto scritte simili sulle proprie strade. I caratteri gialli sul grigio dell’asfalto sono diventati un simbolo delle proteste di queste settimane.
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