Mostre e musei: dall’inimicizia all’ibridazione

Ora più che mai, nel tempo della pandemia, è necessario riflettere sul ruolo delle collezioni museali e su quello delle mostre temporanee, a partire dalla loro durata. Immaginando le migliori strategie per ristabilire gli equilibri del panorama espositivo.

Il fatto che la mostra si sia imposta negli ultimi decenni come il principale dispositivo di fruizione dell’arte, soppiantando il museo, obbliga quest’ultimo a una riflessione sulle proprie modalità operative, che già da più parti è stata avviata e che darà frutti sempre più tangibili negli anni a venire. Piaccia o meno, la mostra ha sostituito alla complessa polifonia del museo una tornita monodia, che è (generalmente) più facile da seguire, anche da parte di chi non ha una buona preparazione culturale e non frequenta abitualmente gli spazi dell’arte. Altrimenti detto, ciò che sorregge la mostra è una narrazione, un racconto per immagini e oggetti che solitamente fa più presa sullo spettatore rispetto alla presentazione paratattica dei pezzi, tipica del museo otto-novecentesco. Il museo deve dunque raccogliere la sfida lanciata dalle mostre, presentando le proprie raccolte sotto forma di una o più esposizioni, temporanee ma non troppo (diciamo, ad esempio, della durata di sei mesi), che puntino a illustrare al pubblico un determinato periodo della storia dell’arte, un movimento, una porzione della storia della città e del territorio in cui il museo è situato. Ne deriverebbe un maggiore dinamismo dell’istituzione museale e il cittadino sarebbe invogliato a tornarvi più spesso, per vedere “che c’è di nuovo”. Senza pretendere, peraltro, di vedere tutti insieme i pezzi più significativi del museo: alcuni di essi potrebbero non essere esposti, se non sono inseriti nei percorsi espositivi delle ‘mostre museali’ in corso.

Armonizzando il calendario delle rassegne organizzate dal museo e quello dei prestiti si potrebbe creare un circolo virtuoso, in cui l’assenza di determinati pezzi non è avvertita dal visitatore come una mancanza”.

Questo aspetto si lega alla questione delle opere in prestito: alla fine di febbraio la polemica si è accesa, per motivi diversi, intorno alla concessione del Leone X di Raffaello alle Scuderie del Quirinale e sul caso della quarantina di opere di Capodimonte (tra cui molti dei dipinti più importanti del museo) spediti per quattro mesi a una mostra a Fort Worth, in Texas. Una riorganizzazione sotto forma di rassegne temporanee degli allestimenti museali (eventualmente integrati da pochissimi, irrinunciabili prestiti) consentirebbe di vedere sotto una luce diversa anche questo problema: a non poter essere prestate non sarebbero tanto le opere ‘identitarie’, quanto quelle che in quel dato momento sono indispensabili per le mostre che il museo ha messo in piedi al proprio interno. Armonizzando il calendario delle rassegne organizzate dal museo e quello dei prestiti si potrebbe creare un circolo virtuoso, in cui l’assenza di determinati pezzi non è avvertita dal visitatore come una mancanza. Fermi restando, naturalmente, alcuni capisaldi: le buone condizioni dell’opera e la sicurezza del trasporto, il fatto che magari non si prestano tutte insieme quaranta opere tra le più importanti, la validità scientifica e divulgativa della mostra cui il pezzo è destinato (di mostre inutili, si sa, è pieno il mondo).

COME LA PENSAVA ROBERTO LONGHI

Le narrazioni che andranno ad animare le sale dei musei saranno di vario genere, ai direttori e al personale spetterà il piacere di escogitarne di sempre nuove e accattivanti. Certo, sembra opportuno che a sostenerle ci sia una solida visione storica, che si traduca in percorsi ordinati cronologicamente, i più facili da seguire e i più efficaci, forse, a livello comunicativo. Narrazioni di storie, insomma, da preferire a quelle “ideuzze pretestuali come ‘luce e ombra’, ‘fantastico’, ‘diabolico’” che già nel 1959 Roberto Longhi vedeva alla base di tante mostre “che si risolvono per lo più in ozii mondani e diplomatici, o in isvaghi municipali a scopo turistico”. Longhi lo scriveva in un intervento dal titolo Mostre e musei, in cui precocemente evidenziava una “inimicizia” tra le une e gli altri, cui sarebbe stato opportuno porre fine. Il grande storico dell’arte si augurava che i musei sarebbero diventati “sempre più cose vive; mostre permanenti, e dunque sempre con qualche punto di vantaggio sulle mostre improvvisate”. Se quindi Longhi sentiva, per un verso, la necessità di superare la contrapposizione, per l’altro non metteva in discussione il primato del museo. Oggi il conflitto va superato per davvero: occorre che i musei siano disposti a imparare dalle (buone) mostre. Ovvero, per chiudere ancora con Longhi: “’Le esposizioni? Ma le esposizioni siamo noi!’: questo dovrebbero dire i musei”.

Fabrizio Federici

Articolo pubblicato su Grandi Mostre #21

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Fabrizio Federici

Fabrizio Federici

Fabrizio Federici ha compiuto studi di storia dell’arte all’Università di Pisa e alla Scuola Normale Superiore, dove ha conseguito il diploma di perfezionamento discutendo una tesi sul collezionista seicentesco Francesco Gualdi. I suoi interessi comprendono temi di storia sociale dell’arte…

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