Arte e generazioni a confronto. L’opinione del gallerista Alessio Moitre
Prosegue il dibattito sulla generazione di artisti trenta-quarantenni. Dopo le riflessioni di Gian Maria Tosatti e Santa Nastro, tocca al gallerista torinese Alessio Moitre dire la sua in merito alle “colpe” dei padri e dei figli.
La contemporaneità ci assale sovente. Nei fatti imprevisti come nelle fraterne abitudini. Una delle tradizioni della nostra società europea è l’accrescimento dell’arte, come cammino o semplice panacea. All’interno degli ambagi, ci perdiamo vogliosamente, rinvenendone analizzati e ancor di più turbati dalle considerazioni generate. Peggio, ma meglio in fondo, ancora se l’escursione è compiuta da giovani avventurieri del pensiero come lo sono gli artisti nella prima età. A loro non viene a mancare la temerarietà ma forse il discernimento ha ancora esperienze da soppesare. E allora mi domando, alla luce degli interventi di Tosatti e Nastro, perché gli si chieda di essere definitivi e attesi nel salone lucente ma anche opulento della giovinezza. Mi pare di scorgere, in alcuni testi del periodo che respiriamo, un’ansia di rivoluzione a ogni costo, un malessere che di certo si riallaccia ai codici di ogni generazione ma che ha salato la pietanza con le aspettative di accordi non rispettati o che si reputino tali. Trenta – quarantenni, in sala d’aspetto del tempo, a tirar l’udito per rintracciare termini conosciuti pronunciati da genitori e nonni, per essere inclusi nella società, vittime di una falsa narrazione della contemporaneità, attraversata come l’attimo necessario, ineluttabile.
Da gallerista, il malessere del creativo lo intercetto anche se non è nel mio corpo che avviene lo scisma, tra un passato avuto e un odierno pressato dalle tempistiche prescritte. L’errore, se mi si concede, mi pare di aver creduto che la giovinezza giustificasse (e forse giustiziasse in termini temporali) la vita intera, che al successivo cammino potesse mancare per sempre gli atti incompiuti, l’aver perso l’occasione di essere storici. Perché in fondo ci si pensa, a essere unici, ad aver toccato le pagine che si scriveranno. Non sento, e in questo il soggettivismo diventa esasperato, l’esigenza di una giustificazione al mio primo periodo da vivente, come non ritengo di aver perduto l’appuntamento, come non ho arnesi intellettuali insanguinati da gettare dal ponte, prove di un omicidio al termine di un tormento interiore. I miei padri possono respirare sereni. Semmai il “derubarli” d’intenti e tesi riattualizzate mi riesce più congeniale. Ma per adoperare in quale modo la refurtiva? In questo mi pare si situi il vero busillis, il punto dolente della questione. Il rattrappimento dell’intellettuale, il negarsi a ideologie esibite, sfacciate ma rese pubbliche, ha isolato l’arte dalla società, pervenendo a una comoda riserva dove innalzare cori lagnosi e malesseri corrucciati. La filiera dell’arte si è amata, celebrata, esibita all’occorrenza se la massa lo richiedeva (all’interno della cultura tanto osteggiata dal compianto Marc Fumaroli) senza ritegno, gettando al pubblico oggetti come mangime per piccioni. In questo non ravviso distinzioni, artisti come tecnici.
“E lasciamo perdere questa schiavitù della giovinezza, che incarna pretese bislacche di unicità. Per me è andata. Che mi stia bene in memoria. È giunto il momento di calpestare i sentieri della società, da genitori di un periodo di cambiamento”.
Dopo aver banchettato e preso atto delle condizioni, cavalcando il decennio intenso degli Anni Novanta, la società ha strambato. I venti-trentenni hanno incontrato un panorama frastagliato ma nel complesso poroso nei confronti delle criticità, rese acute dalla noncuranza dei predecessori. Di certo verrebbe al caso berciare contro i genitori disattenti e ingordi (nonché ottusi nel caso degli eventi fieristici), ma non è di mia competenza e il mio carattere non me lo concede.
Ci si domanderebbe invece a quali contromisure si sia ricorso per ovviare agli inconvenienti. In questo la mia generazione ha peccato di pigrizia, indotta a ritenere ovvio il finale a lieto fine, anche se è innegabile che nel mezzo di un fortunale si pensa a ripararsi e di certo non a cosa capiterà in seguito. Passata la tempesta (o la fase acuta), sarebbe venuto opportuno riunirsi, farsi gruppo, creare comunità ma in questo, è il caso di dirlo, “casca l’asino”. Attorno a quali idee ci saremmo dovuti riunire? C’è n’erano di confezionate e calzanti al nostro caso? Potevamo rifarci, rubacchiandole a scopo, nelle teste dei padri, per altro in forte rattrappimento sia dal lato educativo che d’autorevolezza? Mi pare che si presentava, all’inizio del millennio, uno sconfinato gerbido che anticipava di qualche tempo i fatti che sarebbero seguiti. Niente rilassamenti comunque, nemmeno stupide scusanti. L’unica comunità che intendevano formare era intesa nel senso, vero e sconfortante, del fare comunità! Ammettiamolo, di dolori i genitori ne hanno coltivati, non semplici ematomi ma di fronte al dolore dell’inazione, dei veri traumi, spesso sordi, alcuni a tal punto silenziosi da colpire all’improvviso una generazione ormai definita perduta, invisibile per taluni parametri. Ma in un paesaggio che potrebbe essere definito sconfortante, alcuni elementi mi hanno rincuorato. Se il complesso civile e morale del cambiamento necessita di decenni, la generazione dei trenta-quarantenni ha dalla sua una piattaforma formativa notevole, basata sulla volontà del cambiamento. Difficilmente la vedrà compiuta, ma in questo la gioventù potrebbe averci allocchito. Nell’epoca dell’assenza di maestri, del piano educativo derubricato come orpello, il ritorno alla figura del teorizzatore, dell’ideologo o del meno celebrato ma centrale formatore ha una importanza capitale, che se ben orchestrata può effettuare una modificazione corposa della società. Di certo questo è un affare da uomini, non da ragazzi. Allontanandosi dunque dalla frenesia delle prime esperienze e da quella freschezza che viene citata nello scritto di Tosatti, che percepisco romantica ma un po’ infingarda al netto del giudizio. Maestri. Perché forse la rivoluzione dolce (o chissà) ha le rughe e non appartiene alla nostra costituzione e se tale ipotesi mi mette sul piano giustificativo, me ne tolgo immantinente rintracciando l’utilità di tale tesi evocando lo stato presente che Gian Maria ha tratteggiato per la figura di Marina Abramović inerente alla creazione dell’istituto che nelle intenzioni doveva portare il suo nome. Non mi soffermerò sul caso ma la cito in quanto facente parte del clan dei “guru” dell’arte, figure più mistiche che reali, veri santuari viaggianti oggi intenti nella costruzione di templi a loro merito e memoria con il rischio di concepire un famedio. Dopo la diffusione mediatica, appaltata al mercato e alla comunicazione, assegnato all’atto conclusivo, vi è la celebrazione, il tripudio degli adepti sperticanti lodi. Eppure i propositi avvengono sempre a prestito, accostandosi al sentimento odierno, non più solo figure idolatrate ma santoni che elargiscono filosofia, precetti, sempre dal cocuzzolo con vista sul volgo. Davvero, io non credo che sia appropriato farsene un esempio, ancor di più per l’atto d’isolamento che tali gesti e sviluppi hanno inflitto all’arte, che ha giovato di soli scandaletti o atti eccessivi per apparire popolare e dibattuto. Eppure la società si è smossa, l’analisi degli accadimenti ha “supatato” (scosso, alla piemontese) il vaso, cercando di scovarne il contenuto. Non alla ricerca di un salvatore, troppo spesso atteso e disatteso il giorno seguente all’annuncio, ma di una proposta che dovrà passare per i tizzoni ardenti ed essere saggiata nella tempra dei proponenti.
“Se il complesso civile e morale del cambiamento necessita di decenni, la generazione dei trenta-quarantenni ha dalla sua una piattaforma formativa notevole, basata sulla volontà del cambiamento. Difficilmente la vedrà compiuta, ma in questo la gioventù potrebbe averci allocchito”.
Qualcosa, come accennato, ha già assunto vita propria ed è nelle strade con la generazione dei ventenni ed è da lì che l’arte drena contenuti e, con maggior importanza, lì che deve partecipare. Se non si tornerà a gettare idee nel calderone, rinunciando alle discussioni private e alle infinite dissertazioni su curatori, artisti, mostre, fiere e biennali, l’arte diventerà sempre più un piacere da cicisbei. Mi si capisca, è bene interrogarsi sulle strutture del proprio mestiere, ma non venirne interamente ammattiti. La rivalutazione delle Accademie, il cambiamento formativo dell’insegnamento dell’arte nelle scuole, il ricentrare il baricentro politico del ministero della cultura, la rivalutazione dell’arte contemporanea italiana in fronte al mondo. Sono alcuni punti di svolta e d’impegno generazionale, ma sull’ultimo punto mi duole il capo più che del resto. Forse per via della mia professione, oppure per un sentimento patriottardo insospettabile. Mi vien difficile rintracciare una matrice comune dell’arte visuale attuale e mi pare ben poco lumeggiata la condizione del talento nostrano, lasciato scorrazzare in attesa di liete notizie. Ma è altresì vero che si stenta anche a rintracciarne una struttura di implementazione delle competenze e una forma di sostentamento del comparto. Potrei continuare ma me ne domando la logica al fine dello scritto. Dunque disquisiamo d’arte, che è il nostro mistero e meraviglia, ma senza impelagarci nelle recinzioni del linguaggio essoterico e prediligendo accortamente la costituzione del mondo. Siamo, (in certi casi e per certi lettori), /sono discepolo di una generazione figlia dell’intoppo ma che dell’epoca oscura deve saper fare ideologie d’insegnamento. E lasciamo perdere questa schiavitù della giovinezza, che incarna pretese bislacche di unicità. Per me è andata. Che mi stia bene in memoria. È giunto il momento di calpestare i sentieri della società, da genitori di un periodo di cambiamento. A partire dal rinnegare il contemporaneo come approdo del talento. Alla novità, al presente si è offerto sacrifici in abbondanza. Meglio insegnare, convincere gli artisti dell’opera d’arte come emissario veggente e non come pressante esigenza lavorativa. Si respira, è vero, oggi, si dialoga nell’oggi, si crea per l’oggi e i nostri tessuti culturali affondano nel terreno odierno, ma se vogliamo il domani dobbiamo negarci di avere nella contemporaneità il referente prodigo e celebrativo. Prendiamo provviste dal pensiero illustre di Celant, Obrist, artisti misti e illustri riferimenti, ma avanziamo senza timore in mezzo alla società. Per rinchiuderci in splendidi complessi avremo tempo. Ma non più da giovani, almeno questo è constatazione certa.
‒ Alessio Moitre
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