Spazi matriarcali, parte seconda (III). La bellezza di essere vivi
“Lo spazio matriarcale è: la bellezza di essere vivo, di sentirti vivo e di esistere – di assaporare questa vita fino in fondo”. Terzo appuntamento con i saggi di Christian Caliandro sugli spazi matriarcali.
12 settembre 2020. La bellezza di essere vivo – di iniziare la giornata con la bella musica alle 6 – riscoprire i Counting Crows, gustare i ricordi e le emozioni collegate – guidare veloce all’alba con i Byrds – leggere, scrivere, collegare i punti e i pensieri ‒ la bellezza di essere circondato da persone che ti vogliono bene e che ti amano e che ti rispettano, che si preoccupano per te – avere davanti tanti libri da leggere e pensieri da pensare e dischi da ascoltare – l’estate si prolunga, indefinitamente (a quest’ora era sempre già bell’e finita) – dopo agosto c’è settembre, poi ottobre e novembre – l’estate penetra nell’autunno, lo invade, lo colonizza, si estende mese dopo mese… WAITING FOR THE NEW LOCKDOWN.
(Lo spazio matriarcale è: la bellezza di essere vivo, di sentirti vivo e di esistere – di assaporare questa vita fino in fondo).
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Essere presente.
Essere nel momento.
Essere in questo momento.
Essere qui e ora.
Non essere altrove – oppure, essere qui e altrove.
Contemporaneamente.
Allo stesso tempo.
Indistinzione.
Sdefinizione.
Immersione.
Smarginatura.
Illimitato. (Non-delimitato.) INTERNO / ESTERNO – DENTRO / FUORI – FIGURA / SFONDO
- PROTAGONISTA / CORO
- STORIA / CONTESTO
- ELEMENTI PRIORITARI / SECONDARI
Tra queste cose, non distinguere.
Non gerarchizzare.
Non ordinare.
Non stabilire priorità.
“Quello che non puoi ottenere, inconsciamente l’otterrai. Quando sei silenzioso, discorri, quando discorri, sei silenzioso” (Yoka Daishi, Il canto dell’immediato Satori).
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8 novembre 2018. Scivolare su un altro piano.
Ci sono i confini, i margini, le barriere – e poi, d’improvviso, crollano, si dissolvono, non ci sono più. Questo “contatto” con l’esterno, con l’altro, è anche spaventoso perché sempre discute il Sé, è sempre una forma di fusione. Allora a dissolversi non è solo il confine o il margine, ma IO (la famosa identità): “Pick me, pick me, yeah / Everyone is waiting / Pick me, pick me, yeah / You can even pay them / Hey / Dive / Dive / Dive / Dive in me / Dive / Dive / Dive / Dive in me / Dive in me / Dive in me / Dive in me” (Nirvana, Dive, in Incesticide, 1992).
Le barriere ci definiscono, ma in modo rozzo e incompleto; escludono; immergersi invece vuol dire sprofondare nel tutto, nel caos, essere e confondersi con questo caos, non avere più confini – ed è meraviglioso e terribile insieme, angosciante e sublime. Come disse Caetano Veloso all’indomani dell’elezione di Jair Bolsonaro: “Attenti. Tutto adesso è in pericolo, tutto è diverso, anche se resta meraviglioso. Dobbiamo essere vigili e forti. Non abbiamo tempo per la morte”. Oppure, secondo un’altra versione: “Attenzione. Tutto è pericoloso ora. Ma tutto è divino e meraviglioso”.
(12 settembre 2020. Maneggiare materie pericolose, esplosive. Concetti che fanno male, letteralmente.
Annullamento. Dismissione. Il contrario della distanza: empatia totale. Sentire il dolore del mondo e degli altri, profondamente: “I feel the pain of everyone”, Dinosaur Jr. Crescere.)
“La donna ha dovuto nascondere il suo vero io per poter sopravvivere. L’uomo voleva nella donna un doppio, un gemello che fosse solo la sua metà. (…) Vedo un intero ciclo di creazione che si conclude con la donna, con lo studio della donna. Vedo tutte le strade della filosofia, della storia dell’arte, della morfologia, della psicologia, convergere al chiarimento del mistero della donna” (Anaïs Nin, Diario. Vol. I: 1931-1934, Bompiani 2016, p. 448).
“Stavo spingendo con tutta la mia forza? Tutta la mia forza? No, una parte di me non voleva spingere fuori il bambino. (…) Una parte di me rimaneva passiva, non voleva spingere fuori nessuno, neppure questo frammento morto di me, fuori nel freddo, fuori di me. Tutta la parte di me che aveva scelto di conservare, di cullare, di abbracciare, di amare; tutta la parte di me che sosteneva, conservava, proteggeva; tutta la parte di me che voleva imprigionare il mondo intero nella sua tenerezza appassionata; questa parte di me non avrebbe espulso il bambino, e neppure il passato che era morto in me. Nemmeno se minacciava la mia vita. Non potevo rompere, strappare, separare, abbandonarmi, aprirmi e dilatarmi per liberare questo frammento di vita, come un frammento del passato, questa parte di me si opponeva a spingere fuori il bambino, o chiunque altro, fuori nel freddo, perché venisse raccolto da mani sconosciute, sepolto in luoghi sconosciuti, perso, perso, perso” (ivi, pp. 458-459).
‒ Christian Caliandro
LE PUNTATE PRECEDENTI
Spazi matriarcali, parte seconda (I). Il pensiero femminile
Spazi matriarcali, parte seconda (II). La fine del patriarcato
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