La difficile convivenza con il Covid e il futuro della cultura
Soluzioni globali e valide su ogni fronte per garantire una equilibrata convivenza con un virus sempre più dilagante non esistono. Ma perché la cultura non ha ancora proposto la sua visione? O qualche strategia?
La persistenza della pandemia, la recrudescenza esponenziale dei casi, in Italia come in Europa e nel mondo, sta rendendo quella che era stata definita la fase di “convivenza” con il COVID molto più complicata del previsto.
Complice di questa criticità è stata anche la scelta, dettata da motivi tecnico-scientifici ma anche politici, sociali ed economici, di rendere più leggera la pressione del Governo sulla vita quotidiana dei cittadini ai quali, dopo un periodo di lockdown e di allerta massima, è stata data l’impressione di un “rientro” dell’emergenza, per poi ritornare a una fase “intermedia” che destabilizza tanto i cittadini quanto le scelte di chi è chiamato a governarli. A contribuire alla definizione di un quadro disordinato sono anche la “politica dei talk-show” e la “politica dei gruppi di pressione”. Mentre la prima trasforma qualunque scelta, sia essa di natura politica, economica, sanitaria o sociale, in un argomento di dibattito pubblico, con il solo risultato di incrementare la confusione tra i cittadini e delle divisioni che servono solo a fini elettorali, la seconda, che è invece la politica “vera”, rischia di indebolire le scelte del Governo, che deve trovare un difficile quanto precario equilibrio tra le distinte categorie della società civile che, legittimamente, cercano di individuare condizioni che non arrechino troppi danni agli interessi che rappresentano.
IL RUOLO DELLA CULTURA NEL QUADRO DELLA PANDEMIA
In questo quadro, tuttavia, il dibattito sul futuro della cultura ha riguardato più aspetti di natura giuslavorista e occupazionale che la “cultura” nel proprio insieme. Questo è un riflesso di un settore frammentario e poco coeso che, non essendo abituato a riflettere in modo “strategico” e “politico” (di fatto le riflessioni politiche si riducono quasi sempre a generiche richieste di maggiori finanziamenti senza nemmeno fornire indicazioni su come utilizzarli), ha finito con il contare, in questo complesso scacchiere, meno dei propri lavoratori precari. A differenza di “industrie”, “scuole”, e “sanità”, settori in cui sono in gioco sia i referenti delle organizzazioni sia quelli dei dipendenti, il settore culturale e dello spettacolo è principalmente rappresentato dalle organizzazioni dei lavoratori, segno questo di una debolezza strutturale sulla quale, prima o poi, sarà necessario intervenire. Questa debolezza del settore culturale e creativo non riguarda esclusivamente il “settore”, ma ha ripercussioni molto pesanti sulla concreta attuabilità della fase di “convivenza” con il Covid. È questo l’aspetto centrale da cui bisognerebbe partire.
“Il problema è che la cultura, a parte qualche protesta e qualche questua, non ha ancora proposto una propria visione”.
Le restrizioni che sono state sinora prese riflettono infatti i “poteri contrattuali” delle varie componenti della società: sebbene sia “sciocco” pensare che sia più pericoloso andare in un teatro piuttosto che in una palestra, e sebbene sia chiaramente più pericoloso, ai fini della diffusione del virus, disputare un match di sport professionistico, che richiede la presenza di molti più professionisti, rispetto a uno amatoriale, le tendenze in atto nella gestione della convivenza tendono comunque a privilegiare quelle condizioni che possono “tutelare” (giustamente) anche la tenuta dell’economia, salvaguardando settori molto importanti per il nostro Paese. Il risultato cui si rischia di arrivare è tuttavia, a tratti distopico, con persone che possono andare al lavoro, possono andare a scuola, possono quindi continuare a “produrre”, e che tuttavia rischiano di vedersi sensibilmente erose le possibilità di “svago” culturale, con limitazioni che rischiano di penalizzare di molto sia il settore sia la vita reale delle persone.
Il passaggio da una fase “libera” a una “a libertà tutelata”, vale a dire la reale fase di convivenza con il Covid-19, richiede che le persone siano “libere”, entro certi “limiti” di poter accedere a musei, concerti, e perché no, borghi con pochi abitanti e via discorrendo. In questo senso, la questione è più di natura logistica che di natura strategica. Organizzare degli eventi Covid free è possibile: le elezioni americane, l’NBA, e tantissimi altri esempi lo dimostrano. Appurato che ciò sia possibile, è però necessario comprendere quanto sia “fattibile”. Per stabilirlo, tuttavia, sarebbe necessario in primo luogo avere una “visione” d’insieme, cosa che, a quanto pare, manca.
EVENTI CULTURALI E CONTROLLO DEL CONTAGIO
Eppure gli effetti positivi di una strategia di questo tipo sarebbero sicuramente molteplici. Certo, richiederebbe una forte collaborazione tra chi organizza “eventi”, le autorità sanitarie e le forze dell’ordine, ma potrebbe proporre un modello “diffuso” di screening, cui i cittadini si sottopongono volontariamente, organizzato con “tempi” e “modalità” tali da poterne garantire la sostenibilità tecnica ed economica. Si ipotizzi, ad esempio, una “bolla” per entrare in un borgo. Posti ad accesso limitato, partenza e rientro controllati. All’interno del borgo, musica, teatro e mostre. Un modo per diversificare la somministrazione dei test, e per concedere in ogni caso maggiore attenzione alla fruizione culturale all’interno della vita delle persone.
Non si tratta, ovviamente, di una soluzione “già pronta” né tantomeno questa riflessione intende fornire una soluzione “globale” al problema. Né tantomeno sarebbe giusto farlo. Nessun settore ha sinora proposto soluzioni globali. Solo la “cultura” vorrebbe. Ma non è il suo ruolo. Quello che si vuole avviare, in queste breve articolo, è piuttosto un dibattito attraverso il quale la cultura proponga “proprie” soluzioni per la gestione del Covid. Che tengano conto delle “esigenze” del proprio settore, e ribadendo fermamente l’importanza di questo settore nella vita delle persone. Sta al Governo trovare le opportune “mediazioni”, così come sta cercando di fare con tutte le altre “pressioni” che giungono fino a Palazzo Chigi nel gioco di rappresentanze che chiamiamo democrazia. Il problema è che la cultura, a parte qualche protesta e qualche questua, non ha ancora proposto una propria visione.
Allora è meglio essere parziali e incompleti ma propositivi, non solo per “i nostri occupati”, molti dei quali sono precari anche per responsabilità delle stesse Amministrazioni, ma per i “cittadini”. A meno che non vogliamo cedere a una visione d’Italia in cui le persone lavorano, studiano, vanno al supermercato, e poi passano il tempo davanti a un televisore, o su internet a guardare video su YouTube.
‒ Stefano Monti
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