Sessismo, femminismo e sistema dell’arte. Analisi, studi e prospettive
Un dettagliato approfondimento sulle dinamiche sessiste nel mondo dell’arte e sulle strategie da mettere in campo per scardinarle.
Il 24 dicembre 2019 viene pubblicata dal blog Il Campo Innocente la lettera aperta “Nessun* tocchi il Fallo/Fabre. Alcune note su violenza, sessismo e lavoro artistico”.
L’arte non è un campo innocente.
Qui di seguito la lettera completa, pubblicata sul loro profilo Facebook e in vari blog online. È una lettera di firme aperte e in costante aggiornamento, si può aderire e firmare lasciando un commento sotto il loro post Facebook.
I performer di Jan Fabre, infatti, sul sito della rivista belga Rekto:verso, avevano raccontato di come “Fabre avesse l’abitudine di mortificare le donne con commenti apertamente sessisti oppure commenti inappropriati sulla loro fisicità. Gli artisti dichiarano che Fabre abbia invitato alcuni di loro a casa sua con il pretesto di provare lo spettacolo e lì abbia tentato un approccio di natura sessuale. Di fronte al rifiuto di una prestazione sessuale, Fabre avrebbe ridimensionato notevolmente il ruolo degli artisti nello spettacolo. Non solo, ma coloro che hanno rifiutato le avances sessuali sarebbero stati bersaglio di molestie morali e persino di aggressioni al punto da dover in più casi far ricorso ad un sostegno psicologico per i traumi subiti”, come riporta Artribune. Accuse a cui il coreografo ha risposto con un comunicato, deplorando come lo scambio sia avvenuto esclusivamente per via mediatica e rispondendo con un laconico “Nella lettera aperta leggiamo varie storie riguardanti il modo di lavorare di Jan Fabre. Non è un segreto che Jan abbia una forte personalità e uno stile semplice come regista. Tuttavia, questo non significa che ci sarebbero casi di molestie sessuali”.
JAN FABRE E LE TRAPPOLE SESSISTE
A questa osservazione il collettivo risponde con una riflessione di respiro differente, che qui riportiamo scritta – per la lettura completa della lettera rimandiamo al post su Facebook.
“Nel settembre 2018, il coreografo Jan Fabre è stato pubblicamente accusato da 20 sue/suoi ex collaboratrici/tori della Compagnia Troubleyn di usare un comportamento ricattatorio e violento, con gradienti di intensità diversi, non di rado sfociati in abusi sessuali, molestie, meccanismi di ricatto, e sempre rivolti verso donne. In Belgio, paese che finanzia diffusamente la ricerca e le arti live, si è aperta una discussione anche sul sistema produttivo complessivo e sul sessismo circolante. In Italia, invece, si è colta l’occasione – nonostante la difficile situazione del mondo artistico – per produrre Fabre, farlo circuitare e infine consacrarlo assegnando un premio UBU al protagonista di un suo lavoro (non discutendo il merito dell’attore, notiamo che sarebbe stato possibile premiarlo attraverso altri lavori con cui è stato in scena quest’anno). […]
Ci interessa […] il nesso tra violenza, sessismo e precarietà lavorativa. In Italia, la mancanza di welfare per le/i lavoratori/trici dello spettacolo aggrava una situazione sempre più difficile, in cui vengono tagliati fondi ai festival, ai teatri, alle compagnie e alle/gli artist* che svolgono un lavoro più di ricerca. Questa precarietà economica ci rende più vulnerabili, e più espost* nelle relazioni professionali.
Uno dei temi che è sul tavolo riguarda proprio i rapporti di potere: esistono rapporti di lavoro simmetrici all’interno del variegato mondo della produzione culturale teatrale? Sono simmetrici i rapporti tra curatori/trici e artist*? Tra programmatori/trici e artist*? Tra programmatori/trici e critic*? Quelli tra artist* e critic*? Quelli tra regist* e performers, danzatori, danzatrici?
O potremmo dire altrimenti: chi è sistematicamente fragile? Chi è ricattabile? Chi può dirsi liber* da legami di potere che condizionano la libertà con cui si prende parola nella sfera pubblica?
[…] La questione non è valutare le opere, ma valutare le pratiche e le forme di relazione.
[…] Noi non censuriamo, mettiamo i nostri corpi in scena, parliamo di sessualità e desiderio, mettiamo in discussione i binarismi m/f, ci esponiamo con tutta la pelle. La questione non è la censura, la questione è cancellare dal discorso le pratiche e gli atti ritualizzati della violenza, dati per acquisiti e irrinunciabili. È davvero necessario fare violenza per creare? Davvero non si possono creare lavori di qualità altrimenti? Ci sembra solo un modo per romanticizzare la violenza. La qualifica di artista non può essere un sigillo di privilegio, non può autorizzare a pratiche di potere in cambio della qualità del prodotto […].
L’arte – la pratiche artistiche, il fare culturale – per noi non è uno spazio neutro né innocente. Non è una zona di privilegio né di eccezionalità: è fatto di precarietà, lavoro non pagato, egemonie politiche e culturali, relazioni asimmetriche, di modalità competitive, verticiste, patriarcali, narcisiste ed eteronormate. Non è separato dal mondo, ma interconnesso. […]
Non accettiamo lezioni su quello che accade sui nostri corpi, non accettiamo di assistere al silenziamento e all’invisibilizzazione, diretta e indiretta, di chi sceglie di denunciare la violenza. Vogliamo scoperchiare quei meccanismi sistemici che continuano, indisturbati, ad alimentare le tecniche della violenza, della precarietà, della tossicità. Vi invitiamo a mettervi in ascolto. Altrimenti spostatevi”.
Cristina Rizzo / Leonardo Delogu / Chiara Bersani / Valerio Sirna / Ilenia Caleo / Silvia Calderoni / Giorgia Ohanesian Nardin / Dalila D’Amico / Tania Garribba / Eva Geatti / Marco D’Agostin / F. De Isabella / Mara Oscar Cassiani / Daniela Nicolò / Enrico Casagrande/ Silvia Albanese / Sara Leghissa / Silvia Gallerano / Max Simonetto / Maddalena Fragnito / Martina Ruggeri / Erika Z.Galli / Marina Donatone / Laura Gemini/ Elsa Finardi (in via d’aggiornamento, fino a oggi risultano più di duecento firme)
Jan Fabre è un coreografo, artista visivo, performer e regista nato ad Anversa. L’apprezzamento di cui gode anche in Italia è segnalato da una mostra che lo ha ospitato a Napoli dal 30 marzo al 15 settembre 2019 in quattro sedi prestigiose: Museo e Real Bosco di Capodimonte, la chiesa del Pio Monte della Misericordia, il Museo Madre e la galleria Studio Trisorio. Ma anche il premio Ubu, uno dei più importanti premi teatrali italiani, assegnato all’attore Lino Musella. Un’occasione che ha spinto tuttavia un gruppo di artisti, addetti ai lavori e performer, a una riflessione che ha a che fare con l’uso del corpo altrui, e quindi del potere. Si chiede il gruppo, che nei giorni immediatamente seguenti alla premiazione ha emesso una nota sottoscritta poi da centinaia di colleghe e colleghi: “l’arte è un campo innocente?”
ARTE E SESSISMO
Il problema del sessismo nel mondo del lavoro non è certo un argomento nuovo e che la questione sessista sia presente anche nel mondo dell’arte contemporanea è evidente: pensare il contrario purtroppo significherebbe vivere su un’isola felice, dato che si parla di una questione culturale e sociale. Ma cerchiamo di spiegarci.
Rappresentare tutti i corpi significa andare contro al modello unico di riferimento che abbiamo sempre avuto nei media, nel cinema, nel porno, nell’arte, nella letteratura e che ci vuole magri, bianchi, cisgender e abili. Dire che non c’è bisogno di altre rappresentazioni vuol dire che noi per migliorare dobbiamo avvicinarci a questo modello. Avere più rappresentazioni, quindi, vuol dire sentirsi riconosciuti, smettendo una pressione sociale. Il primo passo è avere rispetto per i corpi. Essere rappresentati in ogni corpo, in ogni tipo di corpo nel sistema artistico ‒ come nell’industria della comunicazione ‒ vuol dire aver rispetto per questi corpi.
Il femminismo intersezionale è accettazione di tutti, è rappresentare ogni corpo perché è necessario combattere lo stigma, l’influenza sociale.
Dalla domanda in un’intervista a Maria Antonietta Trasforini e ad Anne Schloen: dall’età moderna a quella post-moderna è cambiato il ruolo delle donne nell’arte? Dall’essere prevalente oggetto di rappresentazione ‒ i loro corpi rappresentati ‒ sono diventate sempre più protagoniste e autrici di rappresentazioni? La risposta:
“La grande svolta nella storia dell’arte inizia dagli Anni Settanta. Da allora le storiche dell’arte hanno ridato visibilità non solo alle tantissime artiste del passato ma anche alla non neutralità del fare arte, al suo essere un vero e proprio campo di battaglia‚ per parafrasare un famoso manifesto di Barbara Kruger sul corpo delle donne.
Importante ricordarci il manifesto delle Guerrilla Girls alla Biennale di Venezia del 2005, che denunciava una presenza di artiste al Met ancora più bassa rispetto all’‘89, passate dal 5% al 3%. O una manifestazione come l’ultima Documenta di Kassel, dove le artiste erano molto numerose. Invece una recente ricerca su 20 delle più importanti gallerie di New York e su un campione di musei di arte contemporanea statunitensi dagli Anni Settanta al 2005 segnala che le mostre monografiche di artiste erano percentualmente aumentate fino alla metà degli Anni Novanta, ma da quell’epoca è ricominciata una discesa. Insomma, anche l’arte è un campo in cui si misurano e si riflettono i rapporti sociali di genere”.
“Nel sistema dell’arte la sola creatività ammessa è quella maschile; più di qualsiasi altro settore, esso necessità della passività femminile, senza la quale sembra impossibile esaltare le qualità maschili”.
Donne Artiste in Italia ‒ Presenza e Rappresentazione è il risultato di un seminario interdisciplinare sugli studi di genere nelle arti visive promosso dal Dipartimento di Arti Visive di NABA, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano nel contesto del Master in Contemporary Art Markets tra il 2016 e il 2018 e inizia raccontandoci del 1971, quando su ARTnews la storica dell’arte americana Linda Nochlin pubblicava Perché non ci sono state grandi donne artiste?, testo che sanciva la nascita di una nuova consapevolezza sulla posizione sociale delle artiste e dava voce al movimento femminista nei dipartimenti di storia dell’arte. Ora la situazione è certamente cambiata, le donne sono riconosciute tra i protagonisti della stagione del contemporaneo, ma, seppur maggiormente presenti, le donne artiste tuttavia rimangono spesso nei contesti citati un fenomeno da tematizzare e presentare in forma separata, e solo alcuni grandi nomi spiccano in autonomia tra tutti.
È dunque ancora attuale chiedersi quale sia la condizione delle donne nel campo dell’arte ovvero quale sia la reale inclusione delle artiste nel sistema, e in particolare se la visibilità oggi dedicata al loro lavoro sia un elemento di effettivo cambiamento, sufficiente a rendere la disparità di genere un ricordo del secolo scorso. Nel contesto del dibattito è emersa inoltre un’altra peculiarità della ricerca, ovvero il fatto di essere stata concepita anche con una prospettiva storica. In questo modo all’approccio quantitativo si sono aggiunti rimandi, cause ed effetti non secondari alle valutazioni più scientifiche e fonte di continue e sempre più attuali letture.
Se si considera la presenza e l’esperienza delle artiste nel periodo degli Anni Settanta in
Italia, infatti, è necessario affiancare alla questione numerica della presenza la situazione sociale e politica provocata dai movimenti di protesta che coinvolgono in prima linea le donne in lotta per l’affermazione dei loro diritti e per la rimessa in discussione del loro ruolo e posizione all’interno della società. Per una donna negli Anni Settanta entrare in un sistema, quello dell’arte, cercando di assicurarsi un circuito di mercato e collezionismo come forma di sussistenza, entra in collisione col dato di fatto che l’adesione a quel sistema, da sempre immaginato come uno spazio del pensiero libero e democratico, significa invece cedere alla reiterazione di quei valori contro cui la donna è in lotta, per l’obbligata accettazione, senza sfumature, del solo unico movente di tutto quel sistema: la creatività maschile.
Proprio in Italia il problema viene sollevato in maniera esplicita da Carla Lonzi quando nel marzo del 1971 dà alle stampe, subito dopo il Manifesto di Rivolta Femminile, un altro manifesto, Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile.
Il problema è posto da Carla Lonzi in modo molto chiaro: nel sistema dell’arte la sola creatività ammessa è quella maschile; più di qualsiasi altro settore, esso necessità della passività femminile, senza la quale sembra impossibile esaltare le qualità maschili.
La donna, secondo Carla Lonzi, nel sistema dell’arte ha avuto e avrà sempre un ruolo di supporto, di conferma, quando non di acclamazione, della creatività artistica maschile.
Nel contesto del seminario in NABA si sono inoltre prese in considerazione alcune mostre recenti, che danno conto del modo in cui sul piano internazionale si stia assistendo all’emersione di saperi, scritture, funzioni creative ed espositive che hanno attraversato il pensiero femminista. Nel 2017 una serie di significativi episodi hanno marcato questa tendenza mettendo al centro le donne: l’esposizione Feminist Avant–Garde of the 1970s, con opere della Sammlung Verbund Collection di Vienna, una collezione corporate che possiede un’estesa raccolta di arte femminista degli Anni Settanta, curata da Gabriele Schor; la mostra A Year of Yes: Reimagining Feminism at the Brooklyn Museum, con cui il Brooklyn Museum ha inaugurato un programma espositivo interamente dedicato al femminismo, promosso dall’Elizabeth A. Sackler Center for Feminist Art e dalla sua curatrice Maura Reilly, durante il quale è stata anche ripresentata la mostra Radical Women: Latin American Art, precedentemente ospitata dall’Hammer Museum a Los Angeles. Se dunque il dibattito internazionale continua a dimostrare un sempre crescente interesse per le questioni di genere, insieme all’assorbimento di esperienze artistiche legate al femminismo radicale, l’arte femminista cerca di correggere le immagini stereotipate del femminile che la maschera egemonica ha gradualmente marginalizzato e penalizzato, attraverso la consapevolezza che la superiorità maschile possa essere esercitata ma anche combattuta.
UNA QUESTIONE ETICA
Il discorso italiano è tuttavia più complicato, necessita di una spiegazione accurata.
L’importanza del femminismo va raccontata e spiegata perché il sessismo è inserito nel sistema, non solo dell’arte, in cui il femminismo rimane necessario per riuscire a portare riflessioni e poter cambiare realmente questo paradigma. Ecco l’importanza di un discorso etico quindi femminista.
Il femminismo è una teoria filosofica e come tale ci sono tante correnti, tratta diverse discipline dove la stessa filosofia talvolta rimane maschilista e moralista sugli stessi temi che il femminismo mette in discussione.
Lo sguardo capitalista patriarcale ha disegnato il nostro sguardo e le condizioni etiche, la morale è diversa dall’etica poiché la morale riguarda i dogmi e le mie scelte non giudicabili. Tuttavia quando inizia il confronto con l’altro, lì entra in gioco il piano etico: possiamo portare l’esempio dell’aborto, io, per esempio, posso essere moralmente in disaccordo ma eticamente, cioè personalmente, lo praticherei. Questo tema in ottica di democrazia liberale è difficile da applicare, ma rimane necessario per un confronto e una crescita di empatia con l’altro e proprio da questo sentimento può partire il discorso anti sessista.
La pluralità di femminismi comprende la corrente più legata alla contemporaneità (come scritto prima, il femminismo è filosofia, quindi cambia e ha diverse correnti) e cioè il femminismo internazionale, secondo cui tutti i problemi e le marginalità devono essere tenuti presenti nello stesso momento. Quindi è un modo di guardare il mondo non più solo come “Diritti alle donne!” ma come “Diritti per tutti!”, per aprire le porte a QUALSIASI TRASFORMAZIONE del sé.
Sono quotidiani veri e propri atti di maschilismo, di sessismo nei confronti delle donne, non possono essere riducibili a una questione episodica e sbagliamo se consideriamo questi comportamenti come se fossero un’anomalia e non il picco di un problema ben più esteso e che va per gradi. Si parte da un rito di costruzione di una mascolinità attraverso i corpi.
Questo argomento non è individuale, non esistono uomini ‘cattivi’ e altri uomini ‘buoni’. Si parla di una cultura maschile che va educata e osservata perché la donna è vista nella società e nella cultura come fonte di un problema o come l’estensione dell’uomo. Quindi si crea un altro immaginario di possessione dove l’uomo protegge. È un problema culturale. E la violenza sessista è di tutti. Pensare che il mondo va bene come sta e non c’è bisogno di cambiarlo e di occuparsi dei più deboli significa anche avere un pensiero patriarcale ed essere razzisti, abilisti, transfobici, classisti, sessisti. Tutto questo è tossico.
“Dobbiamo intervenire contro questa cultura, questa tradizione, questa consuetudine, non unicamente contro chi la incarna, perché il sessismo è ovunque e non accorgersene è un gran lusso, anzi un privilegio”.
Questa tossicità e violenza che continua ancora oggi si fa perno e si riconosce in ogni forma di neofascismo. Gilles Deleuze in Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 1975-1995 scrive: “Il vecchio fascismo così attuale e potente che sia in molti paesi, non è il nuovo problema attuale. Ci stanno preparando altri fascismi. Un intero neofascismo si sta sistemando rispetto al quale l’ex fascismo figura di folklore […]. Invece di essere una politica e un’economia di guerra, il neo-fascismo è un’intesa mondiale per la sicurezza, per la gestione di una “pace” non meno terribile, con organizzazione concertata di tutte le piccole paure, di tutte le piccole ansie che ci rendono tanti microfascisti, incaricati di soffocare ogni cosa, ogni volto, ogni parola un po’ forte, nella sua strada, nel suo quartiere, la sua sala cinematografica”.
La tossicità, come tante cose tossiche, non si riconosce subito come tale (un parallelo utile e facile è quello con l’amianto: scopriamo dopo di questa tossicità, quando i danni sono fatti; funziona uguale con il sessismo, dove ormai alcuni paradigmi sono già avviati).
Il problema è che quando si parla di sguardo maschile non si parla di uno sguardo che ha a che fare con i maschi in quanto genere in assoluto, ma con un tipo di mascolinità che ha orientato certi tipi di racconti e rappresentazioni e che ha impedito sì sguardi di altri generi ma anche sguardi di altri tipi di mascolinità.
Si parla infatti di una mascolinità ben precisa, cioè dominante in cui la tossicità è inscindibile dall’egemonia. Quindi, quando qualcosa è così dominante cioè capace di oscurare, mettere all’angolo, ghettizzare altri tipi di prospettive, allora diventa tossica.
Quando si parla di femminismo e di fasce diverse della società che vedono discriminazioni, tossicità e squilibri enormi di potere, è importante interrogarci sul rapporto tra realtà e immaginario (“siamo ciò che vediamo” e spesso se non ci vediamo, non siamo).
Molte situazioni, infatti, iniziano a muoversi nella società quando vengono viste sugli schermi e quando iniziano ad avere una presenza nei media. Se non c’è questa presenza spesso l’attivazione di certe dinamiche nella realtà incontra molte più difficoltà. Un esempio sono le numerose rappresentazioni dell’aborto, che hanno, di fatto, influito su fenomeni di attivismo legati al tema.
LO STUDIO NABA SULLE DONNE ARTISTE IN ITALIA
Nel sistema artistico italiano risulta chiara la mancanza di dati aggiornati sulla presenza delle donne artiste nel sistema dell’arte nostrano e in questo senso la pubblicazione Donne Artiste in Italia ‒ Presenza e Rappresentazione, realizzata da Silvia Simoncelli, Caterina Iaquinta, Elvira Vannini per il seminario presso NABA, si pone come punto di partenza di uno studio che ha lo scopo di supportare con dati statistici le analisi di tipo storico-critico che rilevano sistematicamente l’esclusione femminile nel contesto della produzione artistica in Italia. Una tale indagine guarda al panorama delle gallerie commerciali italiane che trattano arte moderna e contemporanea, e al settore culturale in genere, osservato attraverso l’attività dei musei pubblici e delle fondazioni private attive in Italia e consorziate nelle rispettive associazioni di riferimento. Data la mancanza di una collezione permanente in tutte le istituzioni considerate, si è scelto di prendere in esame i soli dati relativi all’offerta di mostre temporanee, sia collettive sia personali.
Ecco i dati presenti all’interno della pubblicazione:
Nell’arte abbiamo ottenuto riconoscimenti importanti e occupiamo oggi posti chiave nel settore, come direttrici di museo, curatrici, galleriste, le artiste rimangono una minoranza. Le ragioni di questa esclusione sono di natura culturale, storica e sociale e ancora molto resta da fare.
Nelle rappresentazioni mediali che seguono riportiamo una ricerca condotta da Amnesty International, che dal 2018 misura il livello di intolleranza e discriminazione nel dibattito online con “sessismo da tastiera”. Si sono soffermati sull’odio di genere e hanno scoperto che quando il tema del commento è “donne e diritti di genere”, l’incidenza dei messaggi offensivi, discriminatori o di hate speech è di quasi 1 su 3.
Gli attacchi personali diretti alle influencer superano di un terzo quelli ricevuti dagli uomini. Tra gli attacchi personali il tasso di hate speech rivolto alle donne supera di 1,5 volte quello dei discorsi d’odio che hanno per bersaglio gli uomini. Infine, degli attacchi personali diretti alle donne 1 su 3 è esplicitamente sessista.
In merito al linguaggio riportiamo le parole della scrittrice Igiaba Scego, che sulla liberazione di Silvia Romano racconta i pregiudizi degli italiani nei confronti della Somalia.
“La verità è che gli italiani devono essere decolonizzati dal loro stesso immaginario coloniale. Anche nel linguaggio ci portiamo dietro troppi retaggi, non solo dal fascismo, ma dalla retorica tipica del XIX secolo. L’idea che l’altro sia stupido, inferiore, disponibile sessualmente, è un sottinteso della nostra cultura mai veramente messo in discussione, mai discusso. La cosa che possiamo fare è parlarne nei libri, in televisione, a scuola, provando a destrutturare il nostro sguardo, non solo raccontando il fenomeno storico del colonialismo, ma mostrando come si è evoluto oggi. E poi bisogna pretendere che i nostri politici cambino, non è possibile essere rappresentati da persone con un immaginario malato, che usano un linguaggio imperialista che divide il mondo tra superiori e inferiori. Quanto ancora ci vorrà prima che si capisca che gli esseri umani sono tutti sullo stesso piano e che al limite si dividono in chi ha subito e chi ha fatto subire? Il dibattito sulle regolarizzazioni dei migranti in queste settimane è un sintomo grave di tutto ciò. I termini mercantili e schiavisti con cui si è discusso il tema sono una vergogna”.
Il sessismo è parte di un sistema culturale immersivo. Essere femministe, credere nella parità di genere significa avere coscienza, oltre che conoscenza, di questo. Nella cultura patriarcale e sessista, dove tutti e tutte noi nasciamo e cresciamo, si trascende il genere: anche la donna non è immune a questa cultura, quindi non è raro che tante donne continuino a perpetrare comportamenti sessisti.
Rimane doveroso ricordare che la denuncia all’oppressione combatte contro questo tipo di cultura che rende le persone, uomini o donne che siano, sessiste, paternaliste, mansplainer, ma anche razziste, eteronormate.
Per questo risulta così difficile sradicare le persone da questa cultura in cui sono immerse da minimo sessanta anni, ma può essere più facile e urgente educare da ora per offrire più punti di vista. Guardare alle prossime generazioni significa anche rendere in divenire questa pratica teorica.
In conclusione dobbiamo intervenire contro questa cultura, questa tradizione, questa consuetudine, non unicamente contro chi la incarna, perché il sessismo è ovunque e non accorgersene è un gran lusso, anzi un privilegio.
Abbiamo deciso di intervistare Ilenia Caleo, Maddalena Fragnito e Dalila d’Amico del collettivo Il Campo Innocente:
PAROLA A IL CAMPO INNOCENTE
Come è nato Il campo Il Campo Innocente?
Nasciamo come gruppo informale a dicembre 2019, per prendere parola collettivamente intorno al caso-Fabre, e più in generale su questioni legate a sessismo, violenza, precarietà nel mondo artistico. In Belgio alcun^ danzatrici, danzatori e artistx avevano pubblicamente denunciato le molestie e il clima di ricatto che il coreografo Jan Fabre metteva in atto all’interno del lavoro della sua compagnia, e già questo fatto di per sé costituiva un caso nella scena artistica, caso che sappiamo per esperienza tutt’altro che isolato. Quello che ci interessava però era aprire uno spazio di discorso che rovesciasse molte delle retoriche che stavano circolando, specialmente tra critici teatrali e nell’ambiente dell’arte dal vivo in difesa di Fabre, e che ci sembravano profondamente tossiche e patriarcali: che all’artista che crea è concesso tutto, che nell’ambito della creazione non fosse necessario il consenso, e che anzi l’abuso fosse in qualche modo legittimato in nome dell’arte, che voler porre le questioni delle relazioni violente e di potere significa attivare un meccanismo di censura. È un vecchio refrain conservatore, accusare le femministe di essere bigotte e censorie, di non capire l’ironia (di battute sessiste o omofobe), di essere ideologiche perché poniamo la questione del potere e della violenza sessuale a diversi livelli e intensità. Ci spiegano che Fabre è un grande artista e che deve essere libero di creare, anche se questo significa mettere le mani sul culo delle sue danzatrici o insultarle perché “grasse”, ci spiegano che quella che viviamo sui nostri corpi come violenza non è violenza affatto, che non bisogna esagerare sennò dell’arte non rimane niente. Stavamo rovinando la festa insomma, come la feminist killjoy di Sara Ahmed. Riconoscere la violenza patriarcale proprio nelle zone più ambigue e inventare collettivamente delle pratiche per rovesciarla non è chiedere il “politicamente corretto”, è un gesto rivoluzionario e travolgente.
Come si è evoluto il tutto?
La lettera iniziava con la frase: “l’arte non è un campo innocente”. Proprio il mondo artistico, anche quello più di sperimentazione, considerato un ambito di ricerca, estremamente aperto, che spesso indaga tematiche legate al corpo e all’identità anche con un approccio radicale, proprio quel mondo non era affatto salvo da dinamiche di potere, asimmetrie, contesti tossici e talvolta violenti. A differenza del movimento #metoo, ci interessava mettere in luce come queste dinamiche che ci coinvolgono in quanto artist^ donne, trans, gay, lesbiche, non binarie, disabili, che mettono in gioco corpo, emozioni, orientamento sessuale e identità, fossero strettamente connesse alla dimensione materiale della precarietà. Più siamo precari^ più siamo espost^, fragili, ricattabili. Autonomia e autodeterminazione sono legate. Ci sono già state in passato delle lotte legate ai diritti di lavorat^ del mondo dell’arte e dello spettacolo, negli ultimi quattro anni però la potenza dei movimenti transfemministi globali di NonUnaDiMeno ha prodotto nuove pratiche, nuovi pensieri, nuove relazioni, che molt^ di noi hanno attraversato. Sentivamo che un posizionamento transfemminista nel mondo dell’arte live ‒ nonostante tutti i proclami e le rassegne dedicate ‒ continuava a mancare, sentivamo l’urgenza di ripensare il corpo, il lavoro artistico, la continua richiesta di performatività creativa e relazione, i sistemi relazionali di produzione, la mancanza di reddito e di tutele, le affinità con il lavoro di cura, affettivo, di genere in una prospettiva transfemminista. D’altra parte, proprio in quanto lavorat^ dell’arte, volevamo sperimentare nuovi linguaggi e nuove pratiche politiche, anche in un piccolo gruppo.
Parlare di sesso, di genere ha già insito un’idea di prescrizione, di controllo, quindi necessita di un atto che disfa la determinazione binaria dell’identità. Un annientamento della singolarità e delle alterità a favore di una motivazione dominante. Dove e quando vi è stato dimostrato di essere l’alterità (letture, esperienze incarnate, ambiente di lavoro, qualsiasi esempio è valido e forte)?
Siamo un gruppo molto eterogeneo di soggettività accomunat^ dal lavorare a vario titolo nel campo dell’arte. Le esperienze incarnate da cui scaturiscono parte delle nostre riflessioni sono molteplici se si pensa sia alle differenze dei nostri corpi, dei nostri orientamenti sessuali, delle nostre posture politiche, sia ai differenti ruoli e di conseguenza relazioni, che pratichiamo all’interno del variegato sistema delle arti performative. Difficile dunque fornire una risposta omogenea a questa domanda. L’unico filo conduttore che potremmo dire attraversi le nostre esperienze è lavorare in un mondo che di per sé si auto-definisce come alterità con il conseguente risultato di alimentare un circuito sistematicamente non regolamentato dal punto di vista dei diritti e dei compensi dei lavorat^.
La prima alterità che in diverso modo, a seconda delle nostre professioni, esperiamo è quella della precarietà, condizione che rende sfumate e a volte non nominabili, le nostre mansioni, i nostri rapporti di lavoro, gli abusi di potere, le ore effettive di lavoro, quelle di pausa (volute o forzate?), tutele, alleanze, nemic_++
Stringendo lo sguardo ai nostri corpi, come ci chiedi, siamo partit_ proprio dall’eterogeneità delle nostre esperienze situate e biografiche per mettere a fuoco e mappare alcune pratiche di violenza sistemica che ci attraversano individualmente, costruendo una sorta di autoinchiesta e una lista di NO verso tali pratiche. Ne elenchiamo qualcuno indicativo di situazioni, contesti e dinamiche che ci pongono, se così si può dire, in una condizione di alterità:
Quando mi trovo coinvolt_ in un percorso formativo basato su umiliazione e violenza
Quando mi si offre visibilità come compenso
Quando mi si chiede di non oppormi (implicitamente o esplicitamente) a delle dinamiche per lavorare
Quando mi si offrono condizioni di viaggio o alloggio che non tengono conto del mio benessere psicofisico
Quando mi si dice di essere troppo femminile, troppo poco femminile, troppo in carne, troppo magr_
Quando il ruolo che ricopro è strettamente connesso al colore della mia pelle, alla conformazione del mio fisico, alla mia abilità, disabilità, età.
Quando mi si chiede di non portare mi_ figli_ al lavoro nonostante non mi si paghi una babysitter
Quando perdo un lavoro perché decido di intraprendere una gravidanza
Quando l’ambiente e lo spazio lavorativo non sono accessibili
Quando non mi si chiede il consenso a essere toccat_
Quando mi si dice che svolgere un lavoro che mi piace compensa le scarse economie.
Quando qualcu_ decide sulla mia pelle, il mio tempo, la mia sensibilità, senza interpellarmi
L’attività de Il Campo Innocente è di contro-narrazioni e l’azione politica nel sistema dell’arte è sempre più urgente, ma in che modo trovate si debba affrontarla oltre al dibattito? Creare spazi eterotopici e pubblicazioni può essere l’inizio del lavoro? Perché?
Uscire dalla solitudine dell’esperienza personale, nominarla e prendere parola è una pratica politica. Inventare immaginari, nuovi lessici, nuovi corpi è una pratica politica. Non è solo “dibattito”, è già radunarsi, farsi soggetti.
Stiamo lavorando all’idea di un’autoinchiesta, uno strumento che è stato utilizzato storicamente dai movimenti di base, e che è particolarmente utile per mappare campi in cui i soggetti sono frammentati, disomogenei, non organizzati, o che sfuggono a definizioni perché riguardano la sessualità, l’intimità, le relazioni, l’identità. Già raccogliersi e trasformare il racconto della propria esperienza personale in una domanda di indagine che possa intercettare altre esperienze è un passaggio che fa uscire dall’autoreferenzialità, dall’autonarrazione fine a se stessa o dalla tentazione del lamento che spesso è anche un modo per scoprire e mettere in luce elementi condivisi tra esperienze che sembrano diverse, comunanze, consonanze anche con settori o attività distanti. È già una pratica di alleanza e di assemblaggio che non cerca una sintesi, dunque una pratica transfemminista.
Sicuramente, come tu dici, la costruzione di spazi altri è una pratica molto potente: i movimenti femministi e lesbici, gay, trans, queer sono stati nei decenni una fonte di continua invenzione di nuove istituzioni, spazi dove poter da subito consolidare e riprodurre forme di vita e relazioni controegemoniche, dalle librerie ai club, dai festival alle case editrici, dai consultori all’occupazione e creazione di case, centri culturali, spazi informali. Anche i movimenti dei commons culturali, che si sono sviluppati in Italia dal 2011 a partire da alcuni posizionamenti molto simili, hanno scelto come pratica quella della riappropriazione di spazi culturali e dell’invenzione di nuove istituzioni comuni, generando esperienze e prototipi molto avanzati che hanno trasformato lo scenario italiano (da Macao all’Asilo, al Valle Occupato al Sale Docks e a moltissimi altri spazi informali). Ma ogni lotta, ogni insorgenza inventa le sue pratiche e i suoi linguaggi, scombinando generi e identità precostituite, anche quelle politiche.
‒ Elsa Finardi
Saggio elaborata nell’ambito del corso di Critical Writing I, Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali, NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, a.a. 2019/2020
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