Grandi eventi: ha ancora senso parlarne?
Mentre l’ultimo DPCM si è “dimenticato” della cultura, chi opera nel settore non si perde d’animo e continua a immaginare possibili scenari futuri. A partire dai grandi eventi, che vanno necessariamente ripensati.
I pesanti e sempre più stringenti limiti all’assembramento – che parolaccia! – fanno riflettere su ruolo, funzioni e opportunità dei grandi eventi. Certamente il concetto di “grande” è soggettivo. Per mesi non si è potuto andare ai musei, poi agli spettacoli, al cinema. È necessario rimanere distanziati dagli “estranei” per ridurre il contagio di questo sfiancante virus. E allora si cercano soluzioni di consumo culturale ammissibili, ma soprattutto sostenibili. Perché fare uno spettacolo per pochi o aprire un luogo (museo, monumento, quel che sia) può non essere possibile sotto il profilo dei costi/ricavi.
Molti hanno invocato la solita mano pubblica che dovrebbe pagare per tutti: ci si vada o meno, valga qualcosa o interessi a qualcuno o meno, la collettività si deve accollare il costo dell’offerta. In nome della libertà di accesso, su cui si è fatto un bel convegno di recente, The 2020 Rome Charter: che muoia Sansone con tutti i Filistei. Questo atteggiamento a mio giudizio è un male chissà come curabile che assilla l’operatore culturale. Non me ne voglio occupare in questa sede. Mi interessa invece innescare una riflessione sull’opportunità degli eventi, considerato che adesso non se ne possono fare granché, mentre normalmente sono un format d’intrattenimento usuale e apprezzato.
“Cogliamo da questa crisi l’occasione di uscirne, oltre che più forti, anche più consapevoli di quel che siamo e di quel che vogliamo”.
Servono sempre i grandi numeri? Per grandi intendo migliaia, decine o centinaia di migliaia. L’essere umano, soprattutto il genere maschile, ha un po’ la visione aritmetica del mondo, gli piacciono i numeri, le quantità oggettive. Quindi tanti è meglio di pochi, migliaia è più figo di centinaia. Però il mondo sta andando altrove, a prescindere dalle limitazioni, contingenti, anche se non sappiamo per quanto, del Covid-19. Quantità non è meglio di qualità e spesso ne è a detrimento. Alle persone piacciono sempre più servizi e non prodotti, personalizzazioni e non generalizzazioni.
Allora – prescindendo adesso dai costi e dalla sostenibilità – perché voler fare sempre e a tutti costi cose grandi? Perché ritenere che se ci si è andati in tanti, troppi, è più riuscito e migliore di qualcosa interessato a pochi? Pochi può essere sinonimo di appropriati, non nel senso di cool, ma anche di veramente interessati. Quante persone partecipano solo perché bisogna esserci, per farsi vedere? Guastando o congestionando chi magari ci va perché ci trova un senso proprio.
IL PUBBLICO E I COSTI
Sfatiamo anche il tema della sostenibilità: qualcosa per pochi costa oggettivamente meno (sul fronte dei costi variabili) e si rivolge a un pubblico che, in quanto più motivato, magari è più elastico al prezzo, è disposto a pagare di più. Parallelamente, allora sì che ha senso che poi ci siano anche iniziative gratuite – o fortemente calmierate – dal contributo pubblico, dalla collettività, for everyone. Cogliamo da questa crisi l’occasione di uscirne, oltre che più forti, anche più consapevoli di quel che siamo e di quel che vogliamo.
‒ Fabio Severino
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #57
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