Torino è vittima della disunità culturale. Le riflessioni del gallerista Alessio Moitre
Alessio Moitre, fondatore della omonima galleria torinese, analizza lo scenario della cultura della sua città. Sottolineando quanto possa essere deleteria la mancanza di unione e di un approccio organico tra i vari attori della scena artistica sabauda.
La disunità è il nostro fardello e ha un retaggio ormai storicizzato. Si è tramutato alle volte in scusante. Altre ci è giunto in soccorso in tramortiti progetti. È stato un formidabile alleato e, tristemente, un elemento di commiserazione. Perché solamente il comune sentimento d’impotenza ci ha fatto comprendere l’appartenenza agli stessi patimenti. E con il rinnovato spirito del difetto, con cui l’arte torinese ha approcciato novembre, mantenendo intatta l’abitudine degli eventi. All’orizzonte però, già in vista dell’ultima mesata, lo scenario si stava compromettendo, rendendo incerta la possibilità di una continuità sperata nonché inscenata dai vari indiscussi protagonisti delle stagioni passate.
IL FALLIMENTO DELLA SETTIMANA DELL’ARTE A NOVEMBRE
Dalle fiere alle gallerie ai musei ai tecnici ai critici, si faceva pratica di mimo. Far intendere senza pronunciarsi. Il copione era stato già scritto in quanto tratto dalla rivisitazione di una lettura stampata sulle facciate delle abitazioni rette da cittadini denominati: torinesi. Austeri, un po’ parigini, frugali, mica tanto spassosi. Altre finte carte distintive sono istoriate nello stereotipo e vanno elencate per liberarsene e discorrere limpidi sulle attenuanti che si avanzeranno per giustificare un assenza d’unità e di programmazione che hanno reso lo scenario degli inizi novembrini un esercizio di cocciuta ottusità. Uno schieramento di caravelle intente, in piena tempesta, non a virare per evitar la falesia ma assennatamente dirette verso gli scogli, con capitani inneggianti alla cocciutaggine come disciplinante pratica di formazione. Giungere alla settimana programmata in gagliardo disordine (Gianni Brera docet), senza accordi né tentativi di coordinamento, in una palude d’insidie. Una delusione quasi insperata persino nelle più masochistiche asserzioni. Come per un moribondo ormai in odore di terra, senza maramaldeggiare, il colpo di grazia della “zona rossa” ha scongiurato un peggior finale. Ma ormai prossimi a dicembre vien da domandarsi se tale avventatezza potesse essere scongiurata da una chiacchierata, un proposito, una telefonata, un progetto o un ridimensionamento corroborante. Se si potesse, oltre ad azioni, impedire lo svelamento di una mancanza di progetto condiviso, anche in un periodo storicamente imprevedibile quanto sciagurato. “Una ogni cent’anni”. Si ripete. Pare il matto che calca le strade di paese, su cui ci si contende il piacere di infierire a parole per primi. È anche l’auspicio dell’anima semplice che ancor si nutre di incredulità. La scusa ideale per nascondere il dato di un’epoca che ormai terminata ha lasciato un afrore stinto.
“La nostra identità può essere forgiata su una mancanza di coesione? Una città come Torino può permettersi una dispersione culturale per mancanza di progettazione?”
Da tempo (quantificatelo a vostro piacere, ognuno possiede la sua ricetta) ci si è ammansiti, rinunciando a gettare ideologicamente delle sementi per veder cosa potesse attecchire. Ridotti a riserve, molti si sono costruiti cantucci confortevoli ma impermeabili alla società, isolandosi e dandone la colpa al cambiamento di un’epoca infausta. Altri hanno progettato per pochi. Nessuno escluso, nemmeno chi scrive, ha compianto altre epoche o evitato di esporsi per insicurezza o dubbio. Maggio è un mese, ma per noi, per la cultura della città torinese, per il mondo del contemporaneo, a cui mi sono affiliato, è un’occasione di genesi. I patti, presupposti in larga parte, sono da riscrivere. Le elezioni ce ne danno la chiave. Da riscrivere, sostenevo, per consunzione, nella maggior parte dei casi, e, come è ovvio, per sopravvenuta necessità. Taluni settori hanno accettato il foglio nuovamente bianco posto in fronte alle loro legittime aspirazioni. Temo, e lo dico con un accenno di irrequietezza, che l’arte torinese non sia pronta a ritornare a trattare di se stessa in termini minimi, ridefinendo il proprio ruolo e competenze nella crescita culturale del Paese. La politica non sarà la compagna ideale se mostrerà svagatezza come ha manifestato in svariate occasioni e se si rifiuterà di prendere parte al suo ruolo di capofila progettuale, ma è sacrosanto aspettarsi nell’immediato una reazione non solo di spirito ma di contenuto, tralasciando una parte delle diffidenze che hanno nell’ambiente piemontese impantanato un cambiamento non certo frizzante ma presente. Il campo della creatività sabauda non è spurio di sorprese, ma risente di una mancanza di valorizzazione e di implementazione data dalla visibilità che, seppur non sempre decisiva, ha nel panorama attuale una difficile esistenza.
IL PROBLEMA DELLA DISUNITÀ CULTURALE
Ma è inutile procedere senza ripescare l’assenza di personalità che ha impedito a importanti soggetti di esporsi ben oltre il semplice dissenso o malumore. Mai professato per la chiesa dei salvatori della patria o degli uomini e donne per tutte le stagioni, ma l’accettazione rancorosa, vieppiù dimessa non è percorso che possiamo intraprendere. La disunità culturale (composta da una certa koinè per terminologie e substrati) che ci siamo inflitti è stata attenuata dalla pandemia ma si è riproposta pimpante alla prima evenienza. La nostra identità può essere forgiata su una mancanza di coesione? Una città come Torino può permettersi una dispersione culturale per mancanza di progettazione? Sono domande che, seppur marginalizzate dai mesi vissuti, avranno il loro riscontro in una rinnovata quotidianità del settore nel 2021, annata che non sarà meno incerta ma che avrà il pregio di vederci forgiati dalle difficoltà affrontate. Le gallerie con dicembre riapriranno, con modalità spesso fantasiose (perché sono state chiuse me lo domando ancora), i musei forse, le nostre indecisioni ci accompagneranno, la nostra reiterata mancanza di unità verrà rimarcata da un territorio impoverito e inevitabilmente timoroso. Sarebbe lo stesso clima incerto a suggerire un riavvicinamento tra mente e concetto, tra soggetti anche differenti ma protagonisti della stessa sfera d’azione. Schierare una intellettualità fragile all’abbrivio degli Anni Venti ci impedirà di regolare le nostre criticità, che Grissinopoli sa dove nascondere, facendo apparire l’ambiente comunque signorile. Forse non è vuoto l’appello di taluni a lasciar perdere certe buone maniere e alcuni atteggiamenti paludati, a concepire una vivacità che sia frutto di uno scambio disequilibrato tra la tradizione e l’accorrente frenesia della sperimentazione, anche in ambito concettuale. Per farla breve, a Torino un colloquiale “Monsù, bogia!” sarebbe non solo accorato appello ma un auspicio perché a oggi occhieggio reverenze dettate dalla consuetudine di un periodo storico cessato e che ha travasato anche accenni di speranza ma che non può più far detonare una reazione. Non ha vissuto certe criticità, non sarà più d’aiuto come un cattivo stereotipo o una credenza popolare. Su quelle abbiamo già investito fin troppa pecunia.
‒ Alessio Moitre
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati