Fase Tre (XVIII). Artisti, sottomissione e autocoscienza
Si conclude la serie di mini saggi di Christian Caliandro dedicati alla Fase Tre. L’analisi stavolta prende le mosse da Carla Lonzi e dalla sua visione dell’arte.
Siamo arrivati alla conclusione di questa serie, mentre la Penisola è ancora in gran parte chiusa, senza una prospettiva chiara, mentre la campagna di vaccinazione procede ancora a rilento.
Riguardo all’apertura come fuoriuscita, dell’identità e quindi dell’opera d’arte, oltre alle riflessioni di Donna Haraway, di Ursula K. LeGuin, di Elena Ferrante e di Ta-Nehisi Coates, credo che sia utile fare riferimento a quello che è stato il percorso faticoso e importante di pensiero, di scrittura e di vita di Carla Lonzi.
CARLA LONZI E CARLA ACCARDI
Dopo il tour de force di Autoritratto (1969), caratterizzato dalla rinuncia di fatto alla critica d’arte attraverso la messa in discussione del “mito culturale dell’arte” e dall’identificazione con gli artisti e con la loro pratica contro il potere ideologico e coercitivo del linguaggio critico (“l’atto critico completo e verificabile è quello che fa parte della creazione artistica”), Lonzi abbandona in poco tempo questa visione e muta dolorosamente prospettiva.
Nel diario del decennio successivo, infatti, racconta la propria successiva disillusione, rappresentata principalmente dalla rottura dell’amicizia con Carla Accardi, che era diventata negli anni precedenti per lei il simbolo di quella libertà e di quella liberazione ricercata attraverso l’esplorazione comune del femminismo e dei suoi temi: si tratta da una parte di un capovolgimento totale del punto di vista, e al tempo stesso dall’altra di un’estensione, di un allargamento, di un ampliamento indefinito di questo sguardo.
L’artista così, la “personalità creativa”, subordina gli altri proprio nel momento in cui sembra favorirne l’apertura e la liberazione: “La personalità creativa, intanto che sembra dare agli altri, toglie loro la possibilità di fare centro su di sé e di mirare ad una liberazione in proprio. L’artista accetta la liberazione di riflesso che egli elargisce, anche se non si accorge che il sospetto che egli ha verso lo spettatore è un risultato inconscio di questa operazione ambigua. Quando ho capito che mi si chiedeva di immedesimarmi nello spettatore ideale, mi sono sentita a disagio. Che funzione era quella? D’altra parte, l’ambiguità dell’artista verso lo spettatore viene dal fatto che lui ne ha bisogno e perciò deve sentirsi autorizzato a procurarselo: lo cerca, lo alletta, lo adopera, lo ricaccia lontano dalla ricerca di sé. Nonostante tutto l’artista fa il vuoto di creatività attorno a sé. Per questo dicevo che [Carla] porta nel femminismo un equivoco derivato anche dalla distribuzione dei ruoli nella creatività: richiamando continuamente sé nell’autocoscienza del gruppo sembra arricchire le altre, in realtà le riduce all’ascolto e impedisce loro di trovare la forza di affermarsi e pretendere attenzione” (Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1978).
ARTISTI E SOTTOMISSIONE
Il soggetto dell’artista appare intrappolato nelle sue strategie di sottomissione dell’altro, e al centro di queste strategie c’è il problematico rapporto dell’opera con lo spettatore, il fatto dato per acquisito che l’opera e il suo autore ‘pretendano’ uno spettatore, e che il tipo di sguardo di questo individuo (ideale e reale) si adegui perfettamente al ruolo definito una volta per tutte: “Il fatto che l’artista si aspetti uno spettatore sempre più adeguato rivela l’impasse di una coscienza confinata in un ruolo. Per questo non è esatto parlare di creatività nel femminismo oppure bisogna intendersi che non si tratta di una creatività di tipo patriarcale: l’autocoscienza di una è incompleta e si blocca se non ha riscontro nell’autocoscienza di un’altra” (ibidem).
“Il soggetto dell’artista appare intrappolato nelle sue strategie di sottomissione dell’altro, e al centro di queste strategie c’è il problematico rapporto dell’opera con lo spettatore”.
A questa “finzione” Carla Lonzi si ribella, proponendo concetti-chiave come “autenticità”, “coscienza/autocoscienza” e “relazione”, validi ancora più oggi come abbiamo visto: nella sua idea infatti non c’è più l’Ioioio dell’artista che, liberandosi, si impone sull’altro ingabbiandolo, costringendolo all’ascolto, ma c’è uno scambio, una reciprocità, un riscontro e una risonanza – e questa risonanza si riflette nell’opera, nel suo funzionamento, perché è la sua sostanza. Da questo ampliamento dello sguardo occorre dunque ripartire in questo momento, e a ben guardare esso era contenuto nell’intuizione all’inizio di Autoritratto, in quella dichiarazione di ‘non-estraneità’ all’arte dopo la perdita del ruolo di critico assegnato dalla società: “Cosa rimane, adesso che ho perso questo ruolo all’interno dell’arte? Sono forse diventata artista? Posso rispondere: non sono più un’estranea. Se l’arte non è nelle mie risorse come creazione, lo è come creatività, come coscienza dell’arte nella disposizione al bene” (in Autoritratto, Abscondita, Milano 2017, p. 13).
‒ Christian Caliandro
LE PUNTATE PRECEDENTI
Fase Tre (I). L’opera e la realtà
Fase Tre (II). Essere l’altro
Fase Tre (III). La paura e gli interstizi
Fase Tre (IV). Crisi e rinascita
Fase Tre (V). Ricordi e postapocalisse
Fase Tre (VI). Che cosa rimane
Fase Tre (VII). Imprevisti e responsabilità
Fase Tre (VIII). Rompere il silenzio
Fase Tre (IX). La percezione del futuro
Fase Tre (X). L’opera e il contesto
Fase Tre (XI). Aperture e imprevisti
Fase Tre (XII). Il punto di rottura
Fase Tre (XIII). Consumo e arte contemporanea
Fase Tre (XIV). La reazione dell’arte
Fase Tre (XV). Cosa vogliamo dall’arte
Fase Tre (XVI). Liberarsi del passato
Fase Tre (XVII). Smarginatura e consapevolezza
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