La vita fantasma. Carel Willink, il pittore della desolazione
Prosegue il nostro viaggio fra le grandi opere della storia dell’arte che possono fare da bussola per orientarsi in questa attualità così difficile. Stavolta i riflettori sono puntati su Carel Willink e sui suoi dipinti, tra Realismo magico e realtà.
Quando si osservano i dipinti dell’olandese Carel Willink, una parola più delle altre sembra assediare i nostri stati d’animo. Si accavallano, è vero, visioni interiori di ogni tipo che hanno a che fare con una sorta di sogno, di moto onirico, ma facilmente, poi, si passa dalla dimensione dell’immaginario a quella del reale quando si plana su un termine ben preciso e incisivo oltre ogni modo; la parola in questione è “desolazione”. Guardando al Dizionario Treccani, ufficialmente la definizione di questo vocabolo è:
Deṡolazióne s. f. [dal lat. tardo desolatio –onis]. – 1. Stato di squallore, di triste abbandono, o anche di rovina: le desolazioni prodotte dalla guerra, dai bombardamenti; che desolazione in quei campi, un tempo così ricchi di vegetazione. 2. a. Dolore profondo, che non ha conforto: morendo ha lasciato nella più grande desolazione la sua famiglia; lo pregò che cercasse della vedova di Cristoforo, le chiedesse in suo nome perdono d’essere stato lui la cagione … di quella desolazione (Manzoni). b. Sentimento di afflizione, di intimo dispiacere per la visione di cose rattristanti: è una desolazione vedere le piante deperire così per la siccità; provò una gran desolazione nel visitare quei poveri paesi.
Ma la più affascinante delle opportunità possibili per la comprensione plenaria di tutta la potenza che una parola del genere può conservare dentro se stessa, e di quanto possa essere ingombrante all’occorrenza, ci perviene dalla sua etimologia che, come tutte le cose che analizzano le radici o le origini, non lascia spazio, pur nella sua semplicità, ad altre interpretazioni: dal latino, infatti, “desolare”, inteso come abbandonare o desertificare, o ancora molto più semplicemente lasciare solo, non poteva che comporsi della particella “de” (intesa come da) e del termine “solus” (inteso come solo).
LA PITTURA DI CAREL WILLINK E LA DESOLAZIONE
Ed è proprio così che ci si sente quando si viene travolti dal silenzio ovattato delle tele del maestro olandese Carel Willink: desolati. Desolati poiché espropriati del proprio io, della propria linfa vitale, derubati della personalissima e sacrosanta libertà di movimento nello spazio, giacché magmaticamente ingabbiati in uno spazio e in un tempo, rigorosamente senza spazio e senza tempo, che sentiamo come Vinavil che sta per asciugarsi ma che non si è ancora seccata, come una colla densa che ci rattrappisce, che ci rallenta, che ci conferisce l’illusione di poterci addirittura muovere ma che invece ci imprigiona. Sostanza, quella di Willink, che ci fa diventare come di un indefinibile materiale gommoso strano che non esiste, se non forse in due frangenti: qualche laboratorio all’avanguardia di cui abbiamo sentito parlare e, altresì, negli inesplorati spazi del laboratorio dei nostri sentimenti.
Non ti si appiccica addosso, no, la colla di Carel Willink: non è invasiva, invadente, esuberante; per capirci, non assomiglia a quella materia sanguinolenta che fuoriesce dall’ascensore più terrificante del mondo (quella del film Shining di Stanley Kubrik, del 1980). Al contrario, è pericolosamente subdola, sottile, languida. Si percepisce fortemente che ha a che fare con una dimensione dell’altrove che richiede, sì, magia per essere attraversato: ma che sia nera, oscura, pericolosa, inquieta. Tanto che lo stesso Carel rinnega l’appartenenza storiografica e l’inquadramento intellettuale fattone negli anni, attribuendo il suo lavoro al filone del Realismo Magico e ne suggerisce una più sottile definizione, etichettando la sua opera come riconducibile al Realismo Immaginario; laddove per immaginario si intende un luogo del pensiero esplorabile solo attraverso il sogno desto o lo stare su quel veliero in burrasca anche quando tutto attorno all’apparenza è sereno.
CAREL WILLINK E LA NOSTALGIA
L’avventura in cui Willink attraverso l’arte ci accompagna è una passeggiata solo apparentemente tranquilla, solo apparentemente serena, solo apparentemente innocua, perché in realtà nasconde insidie e tormenti difficilmente scovabili se non con la lente d’ingrandimento sempre in uso e rivolta verso la nostra coscienza, verso la prospettiva della nostra interiorità, per intenderci.
Poche cose, inoltre, a causa del momento accartocciato che l’esistenza si trova a vivere a causa del Covid-19, a oggi, riescono a somigliare a questa Apocalisse senza Apocalisse che palpita nei dipinti del maestro. Le visioni di Willink sono squarci non di consolatoria e sana malinconia, infatti, ma di irrisolvibile e prepotente nostalgia: sentimento di cui non si può essere che vittime. È sottilissima e quasi impercettibile, forse, la differenza, ma c’è. Sottile come la differenza tra il Sublime europeo e quello americano. Nel primo la natura è maligna, intrisa di mistero, angusta e quasi ostile. Sicuramente sovrasta l’essere umano destinato a perire e relegato alla condizione di insignificanza. Nel secondo, invece, il Sublime tende verso l’Assoluto, verso la potenza, come se fosse favorevole e incoraggiante alle vicende dello sviluppo umano. È compagno di vita e può essere dominato. Gli umani non sono sovrastati dal mistero, piuttosto ci navigano dentro come se lo potessero cogliere e conversarci. Purtroppo, o forse per fortuna, Willink appartiene alla prima delle categorie in entrambe le circostanze: quella inerente la nostalgia che scavalca la malinconia e quella dell’ostilità del mondo che sovrasta il dialogo con il pianeta.
WILLINK E LA PANDEMIA
Non c’è dialogo, infatti, nostro malgrado, con il mondo circostante, a oggi, a causa del periodo che viviamo. Il mondo sembra essersi ribellato e averci vinti. O forse noi stessi sembriamo aver fallito con noi stessi. Non riusciamo a dominare più le cose, a capire le istanze di un pianeta che ci appare d’un tratto estraneo, severo, alieno. Tutto sembra essere popolato da zombie, la cui vita attinge come identità dal carattere della morte: proprio come nei dipinti di Willink, insomma: desolati, desolanti, da ergastolo bianco ma che, nonostante ciò, qua e là, tra una piccola morte e l’altra, a un occhio più attento, possono tradire qualche ipotesi di luce e, forse, dico forse, di speranza futura.
‒ Luca Cantore D’Amore
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