Fuoriuscita (II). Artista e spettatori
A partire dalla critica di Carla Lonzi e dalla sua rottura con il mondo dell’arte, Christian Caliandro parla del rapporto tra artisti e spettatori. Un rapporto che, per essere in equilibrio, deve basarsi sulla reciprocità.
Nella riflessione che Carla Lonzi porta avanti per tutti gli Anni Settanta, a partire dall’esperienza di Autoritratto (1969), dalla frattura del 1970 segnata dal suo abbandono della critica d’arte, l’aspetto centrale è il profondo ripensamento e il ribaltamento del punto di vista sull’artista e sul critico: “Da vittima dello strapotere della critica, l’artista si trova adesso nella posizione privilegiata di chi manipola gli altri, ingannandoli e riducendoli al ruolo di comprimari. Di converso, il critico, precedentemente descritto come colui che seleziona e giudica, diventa ora la vittima femminilizzata di un’impostura architettata dall’artista. Il fallimento di Autoritratto è una conseguenza della mancata rispondenza da parte degli artisti che, contrariamente a Lonzi, non sono disposti a rimettere in questione il loro ruolo. La rispondenza, o risonanza, definisce infatti per Lonzi la relazione che fa esistere il soggetto. Il mito dell’arte necessita invece l’elevarsi dell’uno a discapito degli e delle altre, all’opposto di ciò che la composizione del libro tentava di sperimentare” (Giovanna Zapperi, Carla Lonzi. Un’arte della vita, DeriveApprodi, Roma 2017, p. 180).
ARTISTA, OPERA, PUBBLICO
L’artista e l’opera istituiscono rapporti asimmetrici e squilibrati, all’interno dei quali lo spettatore/la spettatrice assiste impotente alla liberazione del soggetto che si esprime, ma rimane ingabbiato nel ruolo che gli è stato assegnato; questo schema dunque impedisce per la sua stessa natura a chi guarda di liberarsi, di costituirsi e costruirsi cioè in quanto soggetto.
Attraverso l’esplorazione della prospettiva femminista, Carla Lonzi scopre nella “rispondenza” la chiave, l’esperienza e la pratica centrale per portare avanti quella diserzione dei ruoli che era stato l’obiettivo ultimo, e mancato, di Autoritratto – l’origine vera della sua disillusione. E della fine dell’amicizia nel 1973 con Carla Accardi, che non aveva voluto rinunciare al suo ruolo di artista e alla sua identificazione con esso.
Contro le relazioni gerarchiche e inautentiche che legano artista e spettatore/spettatrice, Lonzi comincia a immaginare una modalità creativa che sia realmente in grado di costruire e far vivere relazioni orizzontali: “Nel corso degli anni Settanta l’artista le appare infatti sempre più chiaramente come un soggetto che agisce in conformità con i valori patriarcali, approfittandone per il proprio riconoscimento sociale” (99). Questa altra creatività si modella sulla pratica dell’autocoscienza femminista, che si basa proprio sull’abbandono dei ruoli sociali tradizionali che definiscono l’identità: la ricostruzione del soggetto passa necessariamente attraverso il “vuoto” di cui la donna fa esperienza in questa fase, e la successiva espressione di sé in gruppo, attraverso ascolto, partecipazione e condivisione.
“Contro le relazioni gerarchiche e inautentiche che legano artista e spettatore/spettatrice, Lonzi comincia a immaginare una modalità creativa che sia realmente in grado di costruire e far vivere relazioni orizzontali”.
La liberazione dunque non è vissuta più di riflesso, ma si conquista insieme: “Dove io parlo sempre del problema fra lo spettatore e l’artista, che l’artista fa il vuoto di creatività attorno a sé, che lo spettatore è uno che dimentica se stesso proiettato sull’altro, questo qui è un rimuginio che va avanti dal ’72 alla fine…” (dattiloscritto di un testo inedito conservato presso il Fondo Rivolta Femminile della Fondazione Jacqueline Vodoz e Bruno Danese a Milano, datato 24 aprile 1980).
L’esperienza della comunità è centrale, e il processo di cui parla Lonzi tiene insieme il livello individuale e collettivo, pubblico e privato. Laddove l’artista istituisce – anche tramite l’opera e la sua esibizione ‒ un rapporto sbilanciato che esclude l’autenticità perché ha come base il riconoscimento sociale e il prestigio, e l’arte si manifesta dunque come “mito culturale”, l’altra creatività si fonda invece sulla reciprocità, in cui i soggetti si definiscono proprio attraverso questa indefinizione e questo scambio dei ruoli in cui ognuno, a turno, esprime il sé e riceve, recepisce. La rispondenza si presenta come il territorio ideale in cui realizzare l’autenticità, un termine fondamentale nel pensiero di Carla Lonzi, che anno dopo anno si approfondisce e si fa più complesso e articolato.
AUTENTICITÀ E FUORIUSCITA
Se infatti in Autoritratto l’autenticità era attribuita idealmente alla figura dell’artista, attraverso la fuoriuscita immediatamente successiva dal mondo dell’arte come superamento della polarizzazione artista/spettatore ‒ che si riflette anche sull’opera così come viene creata, fruita e mediata all’interno del sistema che ora viene rifiutato ‒, l’autenticità da recuperare e ricostruire si identifica sempre più con la relazione orizzontale e paritaria, in cui nessuno dei soggetti è subordinato e costretto a riflettersi e a identificarsi in un ‘protagonista’, ma tutti sono ugualmente impegnati nella propria liberazione e ricerca identitaria: “La mia delusione con gli artisti è stata questa, che non mi hanno ricambiato, che mi hanno lasciata spettatrice. Io li avevo capiti e sostenuti quando nessuno, o quasi, li ascoltava. Li ho ascoltati pregustando di riuscire a sbocciare io stessa nella reciprocità invece nessuno me l’ha confermata, ho dato forza a loro e tutto è finito lì” (in Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1978).
‒ Christian Caliandro
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