Fuoriuscita (VI). Il metodo dell’incertezza
Nuovo capitolo dei mini saggi di Christian Caliandro sul tema della fuoriuscita. Usando come bussola le riflessioni di Carla Lonzi.
Fin dall’inizio della sua presa di coscienza, Carla Lonzi prende come punto di riferimento della propria riflessione il ‘metodo dell’incertezza’ scientifico, opposto all’illusorio e idealistico assolutismo che la critica d’arte ha costruito per difendere le sue certezze. È quello che emerge dal primo testo programmatico in questo senso, La solitudine del critico (1963):
“Nella misura in cui il critico, abituato ai privilegi istituzionali, si illude di una veggenza e di una facoltà particolare di coordinamento dei dati della realtà, che lo immunizzino dalla continua perdita di controllo della situazione […] compie un gesto angosciato e angosciante. Se è vero che proprio nella scienza il metodo dell’incertezza, reso necessario dall’indefinito moltiplicarsi delle variabili, ha sostituito i postulati dogmatici di un tempo […], la critica d’arte ha mantenuto, e esteso alla contemporaneità, criteri di assolutezza idealistica veramente controtempo. […] La fortuna del critico militante appare ormai interamente affidata alle risorse di un ambito e di una vicenda personale di sforzo e di penetrazione in vista di una verità personale da raggiungere” (La solitudine del critico, “Avanti”, 13 dicembre 1963).
ARTE E AUTENTICITÀ INDIVIDUALE
Questo metodo dell’incertezza appare sin da subito strettamente legato all’esperienza personale dell’arte, dunque all’autenticità individuale (concetto cardine dell’intero percorso della Lonzi, che sarà non a caso anni dopo il vero perno attorno a cui ruoterà la fuoriuscita dal mondo dell’arte contemporanea e l’esplorazione del femminismo): “Un’esperienza di vita in qualche modo parallela a quella presa di possesso della libertà che determina le opere d’arte a noi contemporanee, diventa per il critico l’unico mezzo per stabilire un contatto con esse, posto che nessuna garanzia è in grado di introdurre da sola alla loro comprensione. Il critico, come l’artista, non può pretendere ad alcun riconoscimento di rappresentanza in anticipo: come per la pittura, così per la critica non esiste più la categoria operativa nella quale insediarsi e conseguentemente agire. La fortuna del critico militante appare ormai interamente affidata alle risorse di un ambito e di una vicenda personali di sforzo e di penetrazione in vista di una verità personale da raggiungere” (ibidem).
RICONOSCIMENTO E RAPPRESENTANZA
È dunque quello dell’esperienza esistenziale il solo piano sul quale il critico può aspirare alla propria liberazione – che coincide con la comprensione dell’opera d’arte ‒, muovendosi così finalmente in direzione contraria rispetto all’alienazione che guida tradizionalmente la sua interpretazione dell’opera stessa (un’interpretazione che si manifesta sempre come tentativo di assoggettamento, quindi di distorsione).
Viene introdotto qui anche l’elemento del riconoscimento, della “rappresentanza”: non è possibile pretendere infatti alcuna legittimazione a priori, ma essa va conquistata passo dopo passo, e invece di rivolgersi all’esterno avrà piuttosto come obiettivo costante il raggiungimento “di una verità personale”. Siamo ancora lontani anni luce dalla disillusione e dalla delusione che Carla Lonzi esprimerà dal 1970 in poi per la mancata reciprocità da parte degli artisti, ma lo scarto fondamentale consiste a questa altezza nel discorso di una critica che legge l’opera e la sua creazione come modelli, come esempi da trasferire continuamente sul piano della vita.
“Il rifiuto dei termini attuali e condivisi nel territorio dell’arte richiede, di fatto, un altro sistema di valori, un’altra visione e un’altra forma di vita”.
È l’inizio cioè di quel movimento dalla critica d’arte alla critica dell’arte, nutrito del rifiuto dell’individualismo, della nozione di soggetto singolo chiuso ermeticamente in sé e nella propria prospettiva (di cui il critico dispotico è il paradigma), a favore invece dell’accoglimento dell’altro, dell’ascolto, dell’adozione del suo punto di vista (in una molteplicità dunque di prospettive, che non si traduce affatto in relativismo) che verranno espressi compiutamente nella pratica collettiva dell’autocoscienza e della “rispondenza”.
Il rifiuto dei termini attuali e condivisi nel territorio dell’arte richiede, di fatto, un altro sistema di valori, un’altra visione e un’altra forma di vita. Non è praticabile come finzione e artificio, da un punto di vista per esempio conservatore e agganciato strettamente al “vecchio” mondo, fatto di privilegio e di riconoscimento. La richiesta fondamentale sarà perciò sempre quella di una reciprocità, di una risonanza che deriva dallo stare-insieme, e dal (ri) costruire insieme la propria identità.
Allora, in che modo questa apparente chiusura è in realtà un’apertura estrema? E l’opera è in grado di svolgere questa funzione di tramite, di veicolo?
‒ Christian Caliandro
LE PUNTATE PRECEDENTI
Fuoriuscita (I). L’arte aperta
Fuoriuscita (II). Artista e spettatori
Fuoriuscita (III). Carla Lonzi e il rifiuto del successo
Fuoriuscita (IV). Relazioni e reciprocità
Fuoriuscita (V). Gli artisti e la contraddizione
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