Fuoriuscita (IX). Vuoto e costruzione

Christian Caliandro torna a parlare di Carla Lonzi per sottolineare la necessità di approcciarsi all’arte in maniera critica, senza sperare nel ritorno a un “prima” che non esiste più.

La fuoriuscita dalla critica d’arte e dal mondo dell’arte contemporanea che Carla Lonzi ha praticato all’inizio degli Anni Settanta è un modello che ci interroga da vicino, oggi. Probabilmente, solo in questo momento storico – o comunque, in particolare in questo momento – siamo in grado di coglierne tutte le implicazioni, le conseguenze, anche le ambiguità e le contraddizioni. Le quali, naturalmente, non negano il percorso e la riflessione della scrittrice, ma li arricchiscono e li rendono ancora più complessi, profondi.
Voglio dire che l’oppressione percepita sempre più chiaramente dalla Lonzi oggi oltrepassa e supera anche la dimensione del genere e si estende a chiunque sia intenzionato a vedere come stanno le cose: “L’oppressione non si risolve con la giustizia della rotazione del potere, ma in modo che l’inferiore, offrendo la parità al superiore crei in quel momento con l’altro la parità; per realizzarla infatti, l’altro deve a sua volta liberarsi della superiorità che lo mantiene inautentico e che egli sente adesso come la vera inferiorità” (Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Scritti di Rivolta Femminile 1978, pag. 23).

CONTRO IL RITORNO AL PRIMA

Poi, è chiaro, ci si può benissimo adagiare nella finzione e nell’illusione – mi pare del resto che i presupposti di questa ‘disposizione’, chiamiamola così, ci siano già tutti e siano già quasi pienamente dispiegati, nell’ansia generale di rimuovere al più presto ciò che è appena accaduto, senza uno straccio di elaborazione collettiva –, convincersi cioè anche profondamente del fatto che sia possibile e persino auspicabile tornare per i prossimi anni e persino decenni anche in campo artistico a fare le cose esattamente come prima, come erano prima, come si facevano prima (nel 2019, nel 2018, nel 2017…): ma è, appunto, un’illusione.
Si può fingere cioè finché si vuole, si può sempre preferire la rappresentazione alla cosa-in-sé, ma ciò non cambia la realtà delle cose anche nell’arte: perché, come avrebbe detto Joan Didion, “il centro non regge”. Oppure, come scrisse Paul B. Preciado nell’autunno scorso (e le sue parole non solo non appaiono obsolete né superate oggi, ma sono semmai ancora più valide rispetto ad allora), “ciò che con tanti sforzi avete ritrovato, ora non ha più senso. Non potete tornare a una vita normale, perché quella che in passato chiamavate ‘vita normale’ non può esistere durante un cambiamento di paradigma, perché anche se le cose sembrano sempre le stesse, non lo sono più” (Tornate, sbrigatevi. Ma per andare dove?, “Libération”, 21 settembre 2020, pubblicato anche in Internazionale).

Laura Cionci, Popolgiost Movimenti di un Rito, 2021, oggetti in ricarica #incontroesperienza1, via Roma, Reggio Emilia

Laura Cionci, Popolgiost Movimenti di un Rito, 2021, oggetti in ricarica #incontroesperienza1, via Roma, Reggio Emilia

CARLA LONZI E IL RIFIUTO DELLA GERARCHIA

Ecco, Carla Lonzi ha rifiutato categoricamente la finzione dei rapporti sbilanciati e gerarchici, da lei concepiti come le “inevitabili conseguenze della spartizione dei ruoli” (Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra, et al./Edizioni 2010, pag. 21), l’ha rifiutata una volta per tutte in nome di un’autenticità inseguita sempre, in tutti i passaggi del suo percorso intellettuale (attraverso peraltro una serie di negazioni che servivano a definire passo dopo passo la propria identità, a costruirla, e a inseguire la liberazione personale: prima la famiglia, poi l’Università, poi la critica come pratica e come ruolo, e infine la figura stessa – sempre intesa come figura ufficiale e istituzionale, come ruolo che incastra e ingabbia – dell’artista). Così facendo, analizzando la propria discrasia con un intero sistema di valori, ha intuito e catturato qualcosa che è presente ancora adesso, in forme se possibile ancora più esasperate rispetto a quaranta o cinquanta anni fa: “Devo dire che questa coscienza che l’arte nasce e si diffonde a scapito dei rapporti ormai fa parte del mio modo di sentire l’arte. (…) è un dissidio interno a me stessa nei confronti dell’arte. So come nasce, so come si vara nel mondo, di quale società ha bisogno sia per nascere sia per diffondersi. A quel punto lì l’arte mi rimane inquinata da questa coscienza. Per me non è più un Valore: è un prodotto umano, di un’umanità con cui non sono in sintonia” (ivi, pag. 121).
Mi sembra che un passaggio essenziale sia il continuo riferimento al “vuoto”, all’essere e al farsi “niente” come momento essenziale alla costruzione e alla conquista della propria espressione, di sé come soggetto: la luce di questo momento attraversa tutti i testi a partire dal 1970 e tutto il femminismo della Lonzi, è la precondizione, il fondamento anche per la pratica dell’autocoscienza.

LA QUESTIONE DEL POTERE

Ecco perché, personalmente, non vedo alcuna cesura, alcuna frattura tra il pre- (la critica d’arte degli Anni Sessanta fino ad Autoritratto) e il post- (i testi femministi degli Anni Settanta, dal Manifesto di Rivolta Femminile a Sputiamo su Hegel, da La donna clitoridea e la donna vaginale al diario Taci, anzi parla, che copre gli anni dal 1972 al 1977, fino a Vai pure) di Carla Lonzi, ma anzi una grande coesione e linearità: la volontà da parte di una delle menti più brillanti della sua generazione di fuoriuscire dall’arte come mondo e come sistema ufficiale non implica e non ha implicato affatto smettere di pensare l’arte, di pensare costantemente al “fare” arte, di immaginare le potenzialità inedite racchiuse nella relazione autentica e paritaria con gli altri, le potenzialità vale a dire di un’arte come forma di vita, come modello possibile di un intero modo di stare insieme. Significa però rifiutare il potere (potere come prestigio, come ansia del riconoscimento e bisogno costante di approvazione): perché, come scriveva nel 1967 Ettore Sottsass, “il Potere non permette che si preparino uomini che pensino agli uomini ma solo uomini che pensino al Potere, pensino soprattutto a difendere il Potere” (Molto difficile da dire, Adelphi 2019, pag. 18).

Christian Caliandro

LE PUNTATE PRECEDENTI

Fuoriuscita (I). L’arte aperta
Fuoriuscita (II). Artista e spettatori
Fuoriuscita (III). Carla Lonzi e il rifiuto del successo
Fuoriuscita (IV). Relazioni e reciprocità
Fuoriuscita (V). Gli artisti e la contraddizione
Fuoriuscita (VI). Il metodo dell’incertezza
Fuoriuscita (VII). Critica e coscienza
Fuoriuscita (VIII). L’arte per tutti

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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