Fuoriuscita (X). Nuovo capitolo del saggio su Carla Lonzi
“Il ‘vuoto’ e il ‘niente’ costituiscono l’antidoto alle relazioni sbilanciate e gerarchiche che dominano le convenzioni dell’arte, e che chiudono in fondo potenzialità e possibilità, lasciandole inespresse”. Christian Caliandro torna a riflettere sull’arte ispirandosi alla critica di Carla Lonzi.
Nella scorsa puntata scrivevo che un passaggio essenziale nella riflessione di Carla Lonzi è il continuo riferimento al “vuoto”, all’essere e al farsi “niente” come momento essenziale alla costruzione e alla conquista della propria espressione, di sé come soggetto: la luce di questo momento attraversa infatti tutti i testi a partire dal 1970, ed è la precondizione, il fondamento anche per la pratica dell’autocoscienza.
Il ‘vuoto’ e il ‘niente’ costituiscono l’antidoto alle relazioni sbilanciate e gerarchiche che dominano le convenzioni dell’arte, e che chiudono in fondo potenzialità e possibilità, lasciandole inespresse. Il fatto per esempio che l’opera debba per forza essere esposta, esibita, dunque che per essere fruita abbia bisogno degli ‘spettatori’ e del ‘pubblico’ – cioè di rientrare nella dinamica della contemplazione, di un rapporto univoco – elimina ogni ipotesi di scambio reale.
L’oppressione infatti non umilia solo il sottoposto, ma anche il superiore, il padrone, incastrandolo in un ruolo che funziona come una gabbia: “La dialettica maschile servo-padrone porta a una nuova forma di dominio da parte degli oppressi poiché il servo identifica la sua inferiorizzazione nella mancanza di potere e perciò costruisce se stesso a immagine del padrone, mentre deve demolire in se stesso l’inferiorizzazione. Questo permette all’altro di liberarsi dalla superiorità come senso di sé attraverso lo stesso procedimento messo in atto dall’inferiore: l’autenticità. Ognuno compie così i suoi gesti per raggiungere la parità, ognuno è attivo per il suo bene” (Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Scritti di Rivolta Femminile 1978, p. 23).
In fondo, come abbiamo già detto, la questione che Lonzi aveva individuato al centro dell’arte contemporanea è ancora viva e presente. L’artista che si trincera nel ruolo, nel prestigio fornito dal potere, nel riconoscimento, in definitiva nella “superiorità”, sta di fatto rinunciando consapevolmente a ogni occasione di sperimentare quell’“arte per tutti” di cui parlava anche Ettore Sottsass nel 1974. Ioioio è il contrario del soggetto che si esprime liberandosi, e che si libera esprimendosi.
CARLA LONZI, IL FEMMINISMO E IL POTERE
Carla Lonzi individua chiaramente, nella pratica del suo femminismo, nel potere la sede dell’inautenticità, una forza che impedisce non solo all’oppresso (la donna: lo spettatore/spettatrice) di liberarsi dalla sua condizione, ma anche all’oppressore di fuoriuscire da una situazione che lo condanna in definitiva all’alienazione: “il potere dell’espressione non ha presa che sul piano dell’autenticità”. L’autenticità risiede sempre al centro di ogni processo artistico e creativo, e a sua volta l’autenticità si trova nel rapporto con l’altro, e nell’espressione che ha luogo solo all’interno di questo rapporto.
La superiorità dell’artista e dell’opera considerati nel contesto tradizionale di fruizione è dunque nient’altro che un’illusione, il frutto di una finzione e di una falsificazione ‒esattamente secondo il processo che era stato individuato come il nucleo della critica d’arte alla fine degli Anni Sessanta, e in particolare ne La critica è potere, pubblicato su NAC nel dicembre 1970 (l’ultimo suo testo, ricordiamo, su una pubblicazione di critica d’arte, fino al 1981).
L’articolo rientrava nel dibattito suscitato da Per una critica acritica di Germano Celant, e a quelle parole rispondeva esplicitamente: “Se l’arte ritorna ad essere una fonte di magia e di incanto elementare e naturale, se si mescola ai deserti, alle rocce, alla neve, alle reazioni fisiche e biologiche, se tende ad esaltare la scoperta di un vivere primordiale in cui mente e corpo, concetto e natura, abbiano importanza massima, se si mimetizza con gli elementi naturali e mentali, sino ad annullarsi allo stato puro nella natura e nel concetto, come sembrano dimostrare le ultime ricerche definite o land art o arte povera o conceptual art, la teoria e la critica d’arte non hanno più bisogno di giudicare o interpretare, di leggere o sostenere un fenomeno, l’arte, che non ha più la necessità di esplicazione e giustificazione, ma solo di una partecipazione sensoriale e mentale”, NAC, ottobre 1970, pp. 29-30).
“Ioioio è il contrario del soggetto che si esprime liberandosi, e che si libera esprimendosi”.
Questa svolta ‘magico-ritualistica’ dell’inventore dell’arte povera (condotta sulla scorta di Contro l’interpretazione di Susan Sontag, o almeno di alcune suggestioni tratte da quel testo del 1967), se guardiamo bene, rappresenta qualcosa di molto lontano rispetto al territorio che Carla Lonzi ha appena iniziato a esplorare, e che comincia a delinearsi a partire da Sputiamo su Hegel (1970): ne è anzi agli antipodi. Certo, l’arte si annulla “allo stato puro nella natura e nel concetto” e “ritorna ad essere una fonte di magia e di incanto elementare e naturale”, ma è assente qualunque riferimento all’altro e alla relazione. Se infatti l’artista è un ‘mago’, uno ‘sciamano’, uno ‘stregone’, tenderà il più possibile a difendere questo territorio sacro con i suoi riti (e le caste che ne conservano e ne tramandano il sapere), a barricarsi al suo interno e dunque a escludere ogni forma di relazione paritaria: perché, ancora una volta, la cultura del magico è “una cultura in cui lui si trovi solo e padrone” (Ettore Sottsass).
‒ Christian Caliandro
LE PUNTATE PRECEDENTI
Fuoriuscita (I). L’arte aperta
Fuoriuscita (II). Artista e spettatori
Fuoriuscita (III). Carla Lonzi e il rifiuto del successo
Fuoriuscita (IV). Relazioni e reciprocità
Fuoriuscita (V). Gli artisti e la contraddizione
Fuoriuscita (VI). Il metodo dell’incertezza
Fuoriuscita (VII). Critica e coscienza
Fuoriuscita (VIII). L’arte per tutti
Fuoriuscita (IX). Vuoto e costruzione
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