Il problema dei musei senza memoria
Sempre più attenti all’aspetto edonistico e meno al loro contenuto, i musei hanno modificato radicalmente la propria identità nel corso delle epoche. Qual è la soluzione?
Ci sono opere che vogliono dispiacere, ma appena entrano in un museo d’un colpo “piacciono”. Un cadavere in strada procura orrore, in un museo curiosità. “Restituitemi il corpo di mio padre”, implorava il giovane Inuit di fronte al cadavere esposto in un museo di storia naturale di New York. E di corpi squartati sono pieni i musei, che siano naturalistici o d’arte ormai non fa più differenza. Questa fatale indistinzione ha portato Peter Sloterdijk all’espressione “infarto del senso”, suggerendo che la bellezza ha un valore retroattivo. “I musei”, notava Adorno, “sono come tombe di famiglia delle opere d’arte”, cioè mausolei; anche questa è un’espressione forte, di fronte alla quale Paul Valéry non sarebbe stato del tutto d’accordo.
Se le opere potessero parlare, molte di esse inveirebbero contro i loro “conservatori” per averle messe nello stesso pianerottolo con altre di cui non condividono idee, forme e apparenza estetica.
“Se la gestione politico-culturale dei musei è in mano ad analfabeti, cioè a mercanti di cultura con i loro emissari politici, allora per essi c’è un solo destino: il cesso”.
L’orror sacro che colpi Valéry al Louvre, di fronte ad allegorie, scene di decapitazioni e di morte, lo portò a classificare il museo come un luogo che ci fa diventare superficiali. Il prodotto di migliaia di ore, che tanti maestri hanno consumato disegnando e dipingendo, è percepito nella disinvoltura di pochi istanti. Una natura morta diventa un “documento” e lotta per farsi notare di fianco a una irresistibile Venere seducente. Come in un condominio, elementi inconciliabili si contendono lo stesso spazio, e le “tombe di famiglia” si fanno guerra l’un l’altra per intercettare lo sguardo del visitatore. L’esigenza di plasmare una massa eterogenea di materiali secondo una legge formale ugualmente valida per ogni elemento comporta una riduzione della ricezione culturale di essi, ammassati come in un magazzino e “offerti” al consumo culturale.
André Malraux diceva che i musei ratificano la conquista del passato e lo consegnano all’ordine del presente; e per il fatto che la loro esistenza si nutre del bottino di guerra, sono per questo anche un documento di barbarie. E se il presente è colonizzato dalla religione edonista, allora l’urna del museo accoglie coffee-shop, self-service, punti-vendita, libri, oggettistica, borsette firmate, magliette e chincaglieria varia. E sul modello americano questi luoghi, sempre più indefinibili, si affittano per costosi matrimoni e per “eventi”.
EDONISMO E MUSEI
Da molti anni i musei si sono adeguati all’imperativo dell’assolo edonistico, assurto a simbolo di vita sociale. In mancanza di una vita sociale reale, il museo supplisce con un’offerta di godimento culturale, di cui l’arte diventa un arredo indispensabile. Siamo ben lontani dalle utopie di Jorge Glusberg che, sulla scia di Malraux, anelava a musei immaginari, dove ciascun fruitore diventava parte attiva (non consumatore) della vita del museo. Come non dar ragione ad Adolf Loos e Karl Kraus, i quali erano d’accordo sul fatto che la differenza tra un’urna e un vaso da notte stabiliva lo spazio della civiltà. Se il museo è come un’urna che conserva i resti (anche viventi) di un’epoca, allora questa differenza tra urna e vaso da notte ha trovato da oltre un secolo un’ironica risposta in un banale oggetto quotidiano. C’è chi usa l’urna come vaso da notte e chi usa il vaso da notte come urna. Entrambe le posizioni coesistono in una patafisica conciliazione nell’orinatoio di Duchamp, divenuto feticcio indiscusso dell’arte contemporanea.
La risposta di Duchamp è ironica e politica a un tempo. Se la gestione politico-culturale dei musei è in mano ad analfabeti, cioè a mercanti di cultura con i loro emissari politici, allora per essi c’è un solo destino: il cesso.
‒ Marcello Faletra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #63
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