Il restauro dell’Aurora di Guido Reni nel Casino Pallavicini Rospigliosi a Roma
Le vicende della casata Pallavicini si mescolano a quelle del capolavoro indiscusso di Guido Reni sul soffitto del Casino Pallavicini Rospigliosi a Roma, oggetto di un restauro davvero riuscito
La fortuna conservativa dell’Aurora di Guido Reni, di cui nelle prime settimane di febbraio 2022 è stato presentato il restauro, si deve alla forza e alla determinazione di tre donne della casata. La prima, Maria Camilla Pallavicini, che acquistò il Palazzo con annessi il giardino e il Casino dell’Aurora; Elvina Pallavicini, che con un decreto regio del re Vittorio Emanuele III venne autorizzata a portare legittimamente il cognome della nobile casata, ma anche a rivendicare giuridicamente il diritto ai titoli a esso collegati; e infine sua figlia, la seconda Maria Camilla, che oggi detiene l’onere e l’onore di traghettare il patrimonio ereditato nel futuro.
La famiglia Pallavicini è dunque una di quelle storiche famiglie italiane che, dal 1100, hanno contribuito a costruire la storia del Paese dando i natali a vari cardinali, a un Papa, Clemente IX, e a uno dei primi sindaci di Roma, Francesco Pallavicini.
Il ramo più antico e più celebre della famiglia fu quello che fiorì nel territorio situato fra le città di Parma, Piacenza e Cremona. Agli inizi del Seicento Nicolò Pallavicini, che aveva commerci con le Fiandre ed era amico e committente dello straordinario pittore Peter Paul Rubens, acquistò le tredici tavole del Cristo e degli apostoli che rappresentano il fulcro iniziale della collezione custodita ancora oggi nel palazzo di famiglia a Roma sul Quirinale. Fu il cardinale Lazzaro, che aveva sempre avuto una grande passione per le opere d’arte e specialmente per i quadri, dei quali possedeva la collezione ereditata dal padre Nicolò, a portarla a Roma sul finire del Seicento, quando vi si trasferì con il fratello Stefano e la nipote Maria Camilla. A lei si deve la riuscita dell’acquisto del Palazzo del Giardino a Monte Cavallo dal marchese Giacomo Ippolito Mancini, agli inizi del Settecento.
L’AURORA DI GUIDO RENI VISTA DAI PONTEGGI
Quel Palazzo era stato fatto costruire dal cardinale Scipione Borghese radendo al suolo i resti delle terme di Costantino perché desiderava una residenza vicino a quella di suo zio, Papa Paolo V, al Palazzo del Quirinale. La nuova costruzione comprendeva, oltre il palazzo, anche un giardino con fontane, ninfei e statue e un meraviglioso Casino per banchetti e feste. Fu dunque Scipione a completare con un programma di affreschi e pitture quest’ultimo edificio, e per farlo chiamò a sé gli artisti migliori. Tra tutti Guido Reni, che realizzò, al centro del soffitto, come un quadro riportato entro una grande cornice in stucco, opera di Ambrogio Buonvicino, la nota Aurora con il carro di Febo e la quadriga con Apollo, circondato dalle “Ore”. Abbiamo avuto il privilegio di salire sui ponteggi prima che il restauro finisse e siamo rimasti senza fiato nel notare l’incredibile definizione delle figure in ogni dettaglio nonostante fossero state create per essere viste da sette metri di distanza. Ma Reni è un pittore estremamente versatile e ha trattato la superficie come se fosse un quadro da cavalletto. La capacità di creare bellezza, di emozionare da parte dell’artista è stata finalmente valorizzata grazie anche a questo restauro durato quattro mesi a opera di Fabiola Jatta e Laura Cibrario. La mostra al via il 1° marzo 2022 alla Galleria Borghese approfondisce, finalmente, la figura di questo grande interprete del Barocco.
IL RESTAURO DELL’AURORA DI GUIDO RENI
Le ricerche preliminari per immagazzinare informazioni sull’affresco hanno permesso di definire i tempi di realizzazione. Nel 1613 un pagamento allo stuccatore indica che la volta era pronta per essere affrescata. Un altro documento attesta nel gennaio del 1614 la presenza di Reni nuovamente a Roma dopo un breve rientro a Bologna, sarà poi pagato per l’esecuzione dell’affresco nell’agosto dello stesso anno. Il cardinale Borghese dettò il soggetto traendo ispirazione dal noto bassorilievo delle danzatrici, all’epoca nella sua collezione, oggi al Louvre. Guido iniziò realizzando una serie di disegni, prima degli abbozzi a inchiostro per impostare tutta la composizione (disegni conservati oggi all’Albertina e al Louvre), poi scese nei dettagli lasciandoci meravigliose testimonianze a sanguigna con le luci e le ombre impostate e finite (disegno oggi nella collezione Windsor Castle). Con quest’ultimo restauro, dall’ispezione a luce radente, è stato possibile comprendere sia che Reni utilizzò la tecnica del quadrettato a pennello con inchiostro rosso per la trasposizione dei disegni poggiati a terra e sia una differente tecnica nella suddivisione delle “giornate”. Tra una giornata e l’altra l’intonaco difatti non si sovrappone, ma l’avanzo del giorno precedente veniva tagliato mostrando ancora oggi, a un’osservazione ravvicinata, la divisione netta. La resa dei personaggi testimonia la mano decisa di Guido Reni, che ha proceduto con pochissimi pentimenti, sull’intonaco di calce e pozzolana, utilizzando la tecnica dell’affresco con colori anche costosissimi come il lapislazzulo, macinato finissimo perché costava 10 scudi per un’oncia.
Ma la straordinaria versatilità di questo artista sta nell’uso di materiali diversi, come il rosso d’uovo mescolato alla Terra Verde o l’olio miscelato al Giallo Lino, per realizzare le velature a secco, ossia sulla superficie affrescata ormai asciutta, che fanno di questo dipinto quasi un quadro da cavalletto. Il restauro si è reso necessario per la comparsa di alcuni sbiancamenti sulla superficie in corrispondenza di vecchie stuccature realizzate in gesso. Ma l’indagine puntuale dall’umidità relativa da contatto non ha riscontrato dati preoccupanti.
DETTAGLI E RISVOLTI DEL RESTAURO
Dalle indagini con il metal detector, sono state scoperte e contate 125 grappe in bronzo, affogate nell’intonaco, inserite rispettando le parti importanti del dipinto, utilizzate in precedenti restauri per ancorare l’intonaco allo strato di arriccio. Ma le indagini hanno rivelato anche la presenza di una fluorescenza puntiforme, che allarmava di più, concentrata sui colori scuri dove erano maggiormente le rifiniture a secco. Qualcosa di soprammesso in passato, forse un protettivo che, invecchiatosi nel tempo, aveva causato microstrappi e cadute dello strato dipinto. Dagli studi d’archivio è emerso che fu Luciano Maranzi, il quale lavorò al restauro nel 1970, a utilizzare come protettivo una emulsione di gomma arabica e olio di lino. Questa soluzione non si amalgama mai bene e con il tempo vira irreversibilmente in ossalato. Gli studi preliminari, le indagini diagnostiche e il rispettoso intervento che si è limitato alla cura della superficie dimostrano, come sempre, quanto un restauro sia un momento di conoscenza senza pari, che ha la sua ragion d’essere certamente nella conservazione del bene, ma soprattutto nella sua comunicazione, nella sua valorizzazione. Un sano rapporto tra istituzioni e tra pubblico e privato nei confronti di questi beni deve assolutamente andare in questa direzione, incentivando il riconoscimento, da parte dello Stato, del valore delle dimore storiche e lavorare insieme per una giusta valorizzazione. Perché, anche se questa tipologia di patrimonio è giuridicamente parte di privati, non si può negare che appartiene alla storia della Nazione.
A questo pensavamo mentre, approfittando dell’apertura per la fine lavori, vagavamo nelle due sale attigue a vedere i dipinti di Giovanni Baglione, Domenico Cresti e altri mirabili artisti, appesi alle pareti.
‒ Giulia Silvia Ghia
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