Riflessioni sul Rinascimento in vista della Biennale di Cecilia Alemani

L’antropocentrismo rinascimentale è messo in discussione dalle linee teoriche della Biennale di Cecilia Alemani, come anticipato dalla stessa curatrice. Qui approfondiamo l’argomento

Che il meraviglioso, l’ibrido e il fantastico fossero di casa durante il Rinascimento lo testimoniano innanzitutto le opere d’arte: dipinti, sculture, disegni che raffigurano esseri dove il naturale si mescola con l’umano, l’umano con l’animale e il vegetale, il maschile con il femminile etc. etc. Una selva di esseri ibridi provenienti dal paganesimo antico si risvegliano dopo secoli di torpore monoteista. E, se non bastasse la visione diretta delle opere d’arte, che testimoniano in modo inequivocabile l’esplosione dell’immaginazione rinascimentale fatta di centauri, satiri, tritoni, esseri metà uomini e metà cavalli, capre e pesci che si accompagnano a esseri metà arborei e animali ed ermafroditi, abbondano i testi di incomparabile erudizione come La rinascita del paganesimo antico di Aby Warburg o i Misteri pagani nel rinascimento di Edgar Wind. Testi capitali che hanno avuto il compito, nel secolo scorso, di spazzare via la ormai vetusta e inservibile interpretazione che fa del Rinascimento un prodromo dell’Illuminismo, fenomeno figlio della modernità calvinista e iconoclasta, come testimonia James Simpson in Under the Hammer.
La difficoltà di classificare un periodo storico come quello rinascimentale deriva dalla difficoltà che molti hanno di dismettere vuote contrapposizioni dicotomiche tipiche della modernità, come razionale vs irrazionale, fantastico vs realista e che dir si voglia.
Ciò che tiene insieme artisti come Piero di Cosimo e Piero della Francesca, oppure Leonardo e Michelangelo nella loro diversità e insieme fortissima coesione è la comune appartenenza a un paradigma affatto diverso, tutto all’insegna del potere delle immagini e della loro indipendenza rispetto ad altre forme di pensiero.

Leonardo da Vinci, Uomo Vitruviano, Gallerie dell'Accademia, Venezia

Leonardo da Vinci, Uomo Vitruviano, Gallerie dell’Accademia, Venezia

IL RINASCIMENTO E LE IMMAGINI

Il Rinascimento è senza dubbio un periodo storico da considerarsi come dominato dal potere delle immagini, potere riconquistato attraverso una nuova centralità sociale dell’artista e della sua immaginazione, e da ritrovati e potenziati mezzi tecnici che la supportano per determinarne la potenza persuasiva, come la rappresentazione dello spazio di tipo prospettico, il chiaroscuro, le proporzioni e lo studio anatomico.
Le immagini riconquistano una efficacia rinnovata e mai più ritrovata dopo l’estromissione dal vivere civile sin dalla fine dell’epoca classica. Ed è altrettanto ovvio che il potere delle immagini porti con sé il ritrovamento di un mondo che per lungo tempo era rimasto sopito, come nel famoso dipinto del festino degli dei di Giovanni Bellini conservato alla National Gallery di Washington, interpretato proprio da Warburg come il ritrarsi in un sospeso isolamento degli dei antichi in attesa di un risveglio che nel Rinascimento avvenne nell’arte.
La linea che potrebbe essere tracciata di un Rinascimento del “meraviglioso” e dell’ibridazione, che va da Pollaiolo a Filippino Lippi e che conduce a Leonardo e Piero di Cosimo, non si contrappone quindi in una sorta di anti-Rinascimento, come alcuni ritengono, all’opera di Masaccio, Piero della Francesca o di Paolo Uccello (gli artefici della razionalizzazione prospettica dello spazio), proprio perché entrambe le linee, oltre a intrecciarsi incessantemente, appartengono a uno stesso orizzonte culturale entro il quale l’immagine si rafforza proprio nell’esplorazione di tutte le potenzialità che l’immagine, una volta riaffermatasi, porta con sé.
E uscendo da Firenze non si può non rammemorare la Scuola ferrarese, che va da Cosmè Tura a Dosso passando per Ercole de Roberti, o le favole mitologiche dei veneziani, da Giovanni Bellini a Giorgione e Tiziano, per non dire della riscoperta delle bizzarrie delle Grottesche a opera di Raffaello, esercizio di ogni ibridazione possibile.
Anche l’antropocentrismo, considerato concetto irrinunciabile del Rinascimento, va visto in una chiave più complessa, che è ben diversa da quella entro cui viene considerato nella vulgata. Esso può e deve assumere una valenza tragica seguendo Massimo Cacciari e il suo brillante saggio dedicato all’Umanesimo Tragico che il grande filosofo fornisce nel suo esemplare studio recente.
L’emblema figurativo di questa categoria del pensiero, l’antropocentrismo, è il leonardesco “Uomo Vitruviano” che, nell’estendersi delle membra, misura i limiti della sua condizione e che quindi mostra una umanità consapevole della propria potenza e dei suoi limiti insieme. Altro che la hubris faustiana della modernità, che di quella immagine infatti farà strame insieme a tutte le altre immagini rinascimentali nei roghi e nelle distruzioni iconoclaste che ne caratterizzarono la nascita.
E come poteva essere altrimenti, infatti, dacché, nell’opera di Leonardo, si trovano accanto a quella immagine tutti gli studi di anatomia comparata che portavano l’artista a riscontrare somiglianze e identità fra uomo e altre specie animali al punto tale da ipotizzare, con tre secoli e mezzo di anticipo su Darwin, una origine dell’umanità proveniente dalla più generale famiglia dei primati. Ecco perché, con Senofane, l’antropocentrismo rinascimentale va inteso come una condizione di relativizzazione della propria specie, che con le altre specie animali ha in comune l’accettazione della propria auto centratura come condizione di default dalla quale è impossibile liberarsi. Il filosofo greco dichiarava infatti che “se i buoi, i cavalli, i leoni avessero le mani, o potessero disegnare e costruire monumenti alla maniera degli uomini, i cavalli disegnerebbero gli dei come cavalli e i buoi come buoi e raffigurerebbero i loro corpi simili al proprio”.

Piero di Cosimo, Caccia Primitiva, Metropolitan Museum, New York

Piero di Cosimo, Caccia Primitiva, Metropolitan Museum, New York

LA QUESTIONE DELL’ANTROPOCENTRISMO

Questo a indicare l’abisso che separa il relativismo dell’antropocentrismo del mondo classico e rinascimentale, risultante della tragica consapevolezza della impossibilità di uscire da sé, all’antropocentrismo della modernità, che dell’uscire da sé e del superamento di ogni limite, compreso soprattutto quello della propria corporeità, fa il suo principio cardine. Ogni anti-antropocentrismo dell’oggi è quindi sintomo di una volontà ben diversa da quella dichiarata, è infatti piuttosto il frutto di una volontà di spazzare via ogni residua limitazione dell’umano in virtù del costante potenziamento della tecnica in modo da poter appropriarsi di tutto l’esistente in una hubris faustiana che con il Rinascimento non ha proprio nulla a che fare.
Alcuni dipinti conservati al Metropolitan Museum di New York di Piero di Cosimo, allievo per un breve periodo di Leonardo, testimoniano proprio questa condizione di parità sostanziale fra tutte le specie dei viventi in accordo con l’allora recentemente riscoperto dall’aretino Poggio Bracciolini De Rerum Natura di Lucrezio.
In una di queste opere uomini e animali si ritrovano in una bolgia primitiva insieme a esseri ibridi, centauri e satiri intenti a sbranare altri animali o all’essere sbranati mentre un fuoco divampa in lontananza facendo fuggire uno stormo di uccelli. La visione di Piero di Cosimo mette sullo stesso piano tutti gli esseri viventi, altro che antropocentrismo arrogante e razionalista. Se l’esplosione del potere delle immagini e dell’immaginazione visiva è ciò che caratterizza l’orizzonte rinascimentale, la modernità, d’altro canto, si apre con la distruzione delle stesse durante la riforma e con l’affermazione del puritanesimo. È ovvio quindi che sia proprio questa l’area culturale entro cui ricercare la hubris dell’antropocentrismo moderno che, dimentico dell’immagine di sé e quindi dei suoi stessi limiti, proprio nell’abbandono di ogni immagine pretende di espandersi oltre ogni limite, come ben descritto nella Nuova Atlantide di Sir Francis Bacon, il grande filosofo inglese e fervente iconoclasta.
Un uomo senza immagine e senza centro è la figura vuota dell’antropocentrismo del moderno. Fintanto che le immagini e il loro potere funzionano da anticorpi al potere del logos, o piuttosto, seguendo il pensiero di Pietro Montani, l’immaginazione riempie di senso sventando il pericolo di auto riflessione del linguaggio articolato, si mantiene un equilibrio dove sono impossibili fughe in una o nell’altra direzione, come, sempre con Montani, ben si evince dall’emblema del nodo Borromeo che mette insieme in un nodo inscindibile mondo, immaginazione e linguaggio.

Leonor Fini, L'Alcove, 1941, Weinstein Gallery, San Francisco

Leonor Fini, L’Alcove, 1941, Weinstein Gallery, San Francisco

IL PUNTO DI VISTA DI CECILIA ALEMANI

Ecco che quindi fa benissimo la curatrice della nuova Biennale d’Arte, Cecilia Alemani, a inaugurare, nella sua presentazione, la serie delle opere in mostra con i dipinti di Remedios Varo e di Leonor Fini, che, emblematicamente, sono totalmente mutuate da un’iconografia chiaramente rinascimentale. E lo si vede sia nella scatola prospettica dotata di scacchiera albertiana, come in una predella di Paolo Uccello, nell’opera della Varo, oppure nell’acribia del disegno e della sovrapposizione di velature, come in un Cristofano Allori, del dipinto della Fini. Ma anche nell’eccezionale dipinto di Paula Rego si scorge l’organizzazione brunelleschiana dello spazio nella fuga prospettica del pavimento a scacchiera che spinge in avanti verso lo spettatore la grande figura in primo piano. È proprio nel tentativo novecentesco di artisti e artiste, come quelle che Alemani ha deciso di porre nuovamente in luce, poste ai margini della linea della modernità ortodossa (quella sì espressione della hubris faustiana e tecnica e quindi fondamentalmente aniconica), le quali ricercavano nell’immagine di matrice rinascimentale la fonte cui abbeverarsi come un antidoto allo strapotere della tecnica, che comprendiamo quanto l’arte del Rinascimento, nella sua irriducibile complessità, sia oggi sempre più che mai attuale e rilevante.

Nicola Verlato

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Nicola Verlato

Nicola Verlato

Nicola Verlato (Verona, 19 febbraio 1965) è un pittore, scultore e architetto italiano residente a Los Angeles, in California.

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